Negli ultimi venti anni, la politica estera turca è andata incontro ad un processo di ridefinizione nell’ambito del passaggio da una West-oriented policy ad una multi-oriented policy. Con Federico Donelli – ricercatore postdoc in Relazioni Internazionali presso l’Università di Genova – tenteremo di tracciare una panoramica della politica estera turca nelle ultime due decadi, concentrandoci sul contesto mediorientale e africano.
Vorrei chiederle innanzitutto quando e perché è emersa, in seno alla politica turca, un’attenzione sempre maggiore verso la regione del Sud Globale e la costruzione di una sua southern dimension.
Intanto vi ringrazio per l’invito, mi fa molto piacere. Cerchiamo di fare un po’ il punto sulla politica estera turca, anche se non sarà facile parlarne in mezz’ora, o poco più. La politica estera turca si trasforma radicalmente a partire dall’ascesa al potere del JDP (Justice and Development Party, N.d.r.), il partito di Erdoğan. L’idea diventa quella di ricercare un’autonomia maggiore nel campo della politica internazionale, funzionale a quelli che erano gli interessi di politica interna. Parliamo sia di interessi politici, di ridimensionamento di un establishment laico, sia degli interessi economici di nuovi gruppi industriali che sono legati al partito di Erdoğan. Quindi, se vogliamo, c’è una connivenza tra l’elemento economico e l’elemento politico. All’interno di questo quadro, però, trovano posto anche delle visioni nuove e la volontà di applicare una strategia diversa dalle precedenti. La Turchia non volta le spalle all’Occidente e guarda ad Oriente come tante volte viene erroneamente rappresentato. Piuttosto, decide di non focalizzarsi unicamente verso Occidente e capisce che può sfruttare il proprio ruolo geografico, storico, culturale e identitario, in una molteplicità di contesti. Questi contesti coinvolgono ovviamente le zone più vicine come i Balcani, il Caucaso, l’Asia Centrale e il Medio Oriente. In un secondo momento si decide che un’area poco battuta dalla politica estera turca è quella globale, in particolare l’Africa subsahariana, ma anche l’America Latina. Dal 2004 al 2008, la Turchia avvia programmi e agende di apertura versi questi due contesti regionali. Però, dobbiamo sempre tener conto della situazione nel contesto internazionale: io ritengo che tutto questo non sarebbe stato possibile se non ci fossero state le condizioni sistemiche affinché la Turchia potesse sfruttare degli spazi di opportunità. Siamo all’inizio del nuovo millennio, siamo nella fase di lotta al terrorismo post undici settembre, gli Stati Uniti stanno portando avanti due dispendiosi conflitti in Iraq e Afghanistan. In questo quadro si iniziano a intravedere quegli elementi di multipolarità che poi rileviamo in maniera ancora più evidente al giorno d’oggi. La multipolarità significa nient’altro che la possibilità, per quelle potenze in cerca di maggiore influenza nel contesto internazionale, di ottenere spazi di manovra. Spazi che la Turchia, grazie anche ad una convergenza di fattori interni ed esterni, ha potuto sfruttare per allargare le proprie sfere di interesse.
Proprio in relazione al coinvolgimento strategico della Turchia in Africa, può illustrarci le fasi della penetrazione turca nel continente? Può aiutarci a comprendere il ruolo svolto da attori non statali nel processo di policy-making in loco?
Partiamo dalle fasi dell’incremento della presenza turca in Africa. Tendenzialmente si divide in tre fasi. Una prima fase è quella della cosiddetta apertura, nella quale la Turchia si apre, letteralmente, all’Africa subsahariana. Questa fase non comporta unicamente uno sforzo in termini di risorse, ma anche in termini psicologici, per due categorie di attori. Da un lato abbiamo i foreign policy makers che prendono le decisioni, delineano la politica estera turca e poi la attuano. Dall’altro lato vi è il livello pubblico, quindi di consapevolezza da parte del pubblico turco riguardo all’Africa subsahariana, un contesto regionale totalmente dimenticato dalle precedenti amministrazioni ed impostazioni di politica estera. Emerge, quindi, la necessità di aprirsi a un nuovo contesto. In questa apertura si nota una convergenza di interessi tra le componenti di una società civile sempre più attiva, di una borghesia conservatrice che gradualmente riesce a trovare spazio prima nel contesto pubblico turco e, successivamente, all’interno della proiezione turca verso l’esterno. Questo processo è simile a quanto già avvenuto nei Balcani e, in qualche modo, in Asia Centrale con le ex repubbliche sovietiche turcofone. A rivestire un ruolo molto importante c’è un universo di organizzazioni, ONG con forte impronta religiosa, ma anche associazioni di imprenditori, fondazioni caritatevoli, municipalità. Ecco che questo mix di attori non statali che però cooperano con le agenzie dello Stato si muove in maniera comprensiva in Africa subsahariana, soprattutto tra il 2005, l’anno di apertura, e il 2014-2015. Poi, con il fallito colpo di stato in Turchia del 2016, questo modello cambia radicalmente. La seconda fase parte dal 2011, dopo le rivolte che coinvolgono gran parte dei paesi mediorientali. La Turchia, dopo aver adottato un approccio legato all’economia e all’intervento umanitario, decide di interessarsi anche agli aspetti politici. Questo nuovo approccio diventa evidente in Somalia, il laboratorio della politica estera turca in Africa. Ovviamente il fatto di iniziare ad interessarsi anche alle questioni politiche degli Stati africani comporta un’esposizione maggiore. In una fase come quella post-2011, in cui si assiste ad un completo rimescolamento degli equilibri regionali in Medio Oriente, questa nuova politica turca entra in contrasto con quella di altri attori regionali, come l’Iran, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, l’Egitto. Quindi si rivedono dinamiche competitive, tradizionali del contesto mediorientale, che vengono però allargate al contesto del Corno d’Africa. Infine, la terza fase vede un interesse a livello della dimensione securitaria, militare. L’approccio turco all’Africa assume sempre più una chiave securitaria, attraverso l’apertura di training facilities, la più importante delle quali è quella di Mogadiscio. E poi ricordo l’esportazione degli hardware militari turchi, su tutti i droni. Questa è la nuova dimensione della politica africana della Turchia. In questo quadro, la Turchia cerca di guadagnare in termini materiali, di ottenere dei benefici economici e commerciali, e di guadagnare in termini politici, cercando il sostegno dei paesi africani all’interno delle organizzazioni internazionali. Allo stesso tempo, c’è un elemento che io non considero essere primario. Si tratta, però, di un vettore molto importante, ovvero la dimensione religiosa. La Turchia sfrutta l’elemento religioso in termini di politica interna per riuscire a ricompattare e rafforzare il legame tra le componenti pubbliche, le agenzie statali, e la società civile che costituisce la grande base di sostegno del partito di Erdoğan.
Nell’ambito di una riflessione sulla politica estera turca non posso non porle una domanda sulla crisi siriana. Vorrei chiederle, in particolare, quali sono le ragioni alla base dell’ambigua postura assunta dal governo turco, riavvicinatosi, intorno al 2004-2008 al regime di al-Assad, per poi operare come finanziatore del fronte d’opposizione a Damasco.
Federico Donelli: Potremmo dire che la Siria è stato il grande successo della politica estera del primo decennio del JDP e, nella fattispecie, dell’architetto di quella politica estera, Ahmet Davutoğlu. Egli aveva fondato la propria idea di “zero problemi con i vicini” in relazione ai rapporti con la Siria, per il semplice motivo che questa rappresentava la grande porta verso il Medio Oriente, regione negata per tanti decenni. La Siria rappresentava il successo di politica estera della prima Turchia di Erdoğan. La Turchia, nel momento in cui scoppiano le rivolte e decide di provare a sfruttare al massimo la situazione per porsi alla guida di una nuova riconfigurazione regionale, crede di godere di un’influenza della quale in realtà non godeva. I rapporti diplomatici erano normalizzati ma la Turchia non aveva influenza sul regime di Damasco. Quando Erdoğan e il gruppo dirigente turco provano a mediare tra i gruppi di opposizione e il regime di al-Assad, si trovano a doversi scontrare con le posizioni del regime che non vuole assolutamente aprire alcun dialogo. In quel momento avviene il cortocircuito, che non coinvolge unicamente la Siria, ma tutti i contesti interessati dalle crisi. L’allora Primo Ministro Erdoğan si ritrova a dover fare i conti con la realtà di un potere che era più effimero di quanto credesse e, a quel punto, la Turchia inizia a fare quello che fanno gli altri attori regionali: foraggiare e sponsorizzare i gruppi di opposizione armata. Tra questi, ne figurano alcuni vicini dal punto di vista ideologico e organizzativo ad al-Qāʿida, in particolare al-Nuṣrah, portando avanti una politica di guerra per procura. A differenza di altri contesti nei quali la Turchia si muove per logiche di potenza, di equilibri di potere regionale oppure di guadagno come in Africa subsahariana, il contesto siriano coinvolge l’elemento della sicurezza nazionale. In Siria, più che altrove, la Turchia teme quella che considera una minaccia esistenziale, ovvero l’Islam politico. Questo elemento porta la politica estera turca sul piano di quella di altri attori regionali, come gli Emirati Arabi Uniti, mossi dal timore della sua diffusione. Per la Turchia, la minaccia è rappresentata dal movimento curdo siriano e dai suoi legami con il movimento curdo turco, nella fattispecie, con il PKK. La presenza di componenti di guerriglia curda in Siria convince la Turchia a adottare una politica interventista, con l’avvio di operazioni militari in territorio siriano: è l’unico tra i Paesi regionali ad avere i boots on the ground. L’Iran tendenzialmente invia consiglieri e milizie ma ufficialmente non ha soldati sul suolo siriano, mentre la Turchia è impegnata da anni con operazioni in Siria. L’altro lato della questione siriana è quello dei rifugiati, che costituisce, da una parte, una leva di potere che il governo turco utilizza soprattutto nei rapporti con l’Unione Europea, e, dall’altra, comporta una serie di problematiche interne economiche e sociali. Un numero attorno ai quattro milioni di siriani può infatti generare criticità lungo il confine ma anche nelle grandi città. Questo per dire che i progetti turchi per il futuro della Siria sono sicuramente legati ai piani riguardanti questi rifugiati siriani che si trovano adesso in territorio turco.
Interpretando la politica estera turca come continuazione della politica interna nazionale, ci può parlare delle ricadute che le azioni regionali e globali della Turchia hanno prodotto all’interno del panorama politico del Paese?
La questione siriana si collega all’avvio di operazioni militari turche, che si legano inevitabilmente al rimescolamento degli equilibri politici interni. Dopo il tentativo di colpo di stato del 2016, i due anni di stato di emergenza, il passaggio definitivo attraverso referendum al presidenzialismo, Erdoğan ha bisogno di nuove alleanze. La soluzione viene trovata nell’MHP, partito di destra nazionalista, attualmente in coalizione con il JDP. Perché la commistione tra gli elementi di politica interna e di politica estera trova riscontro nell’intervento in Siria? Perché l’MHP è il partito di una certa componente militare, nazionalista, laica che sicuramente si rivede in Mustafa Kemal ma, allo stesso tempo, va oltre. L’MHP non si ferma all’elemento tradizionale delle frecce kemaliste ma guarda anche ad una costruzione che possiamo definire leggendaria, che richiama il panturanesimo, ai forti legami con l’Asia Centrale, alla mitologia di Turan. Questi elementi diventano, e lo sono tuttora, un bacino elettorale fondamentale per Erdoğan. L’interventismo militare genera quel fenomeno, ampiamento studiato nelle relazioni internazionali, che è il rally round the flag (lo stringersi attorno alla bandiera), soprattutto da parte di un elettorato nazionalista. La relazione tra partito di Erdoğan e MHP viene fortemente influenzata dall’andamento del conflitto in Siria. Allo stesso tempo però Erdoğan utilizza tendenzialmente la politica estera come un proprio strumento di politica interna, e lo fa con quella retorica antioccidentale che solitamente trova posto nelle prime pagine di tutti i media e della stampa occidentale. Sono ormai quotidiane le uscite, anche forti, di Erdoğan nei confronti dell’Occidente e degli stili di vita occidentali. Le dimensioni di queste dichiarazioni e, della retorica di Erdoğan vanno comprese all’interno di un contesto di politica interna in cui il leader del JDP si sta aggrappando a certi bacini elettorali sui quali fa presa questa retorica. Tante volte, quando si osserva la narrazione e lo storytelling del leader, bisogna ricordare che la dimensione domestica ha, in questo caso, una rilevanza maggiore rispetto a quella internazionale.
Vorrei chiederle, come ultima domanda, se può illustrarci quello che è il complesso di teorie e visioni che sottendono alla costruzione dell’agenda di politica estera turca degli ultimi venti anni. In un’ottica comparativa con altri Paesi, è possibile parlare di un modello turco di politica estera alternativo, con proprie caratteristiche e peculiarità?
È una domanda che richiederebbe molto più tempo per rispondere. Partiamo da una premessa: secondo me la Turchia negli ultimi cinque anni non ha più una strategia di politica estera e si muove seguendo o gli umori interni o quelli del leader. Anche se non rappresenterei la politica estera turca unicamente come espressione di Erdoğan, è altrettanto vero che il consiglio di sicurezza istituito all’interno del palazzo presidenziale è composto perlopiù da elementi a lui molto vicini. Sicuramente, se non un one man rule, c’è un elemento forte del ruolo del Presidente. La Turchia fa delle scelte tattiche, in molti casi opportunistiche, volte a guadagni a stretto giro, non a lungo termine, e non vengono definiti obiettivi chiari e strumenti per raggiungerli. Ovviamente, allo stesso tempo, per quanto io stesso sia solito dire che quella di neo-ottomanesimo sia una categoria pop, la realtà è che se si consultano i documenti ufficiali dal 2003 ad oggi relativi alle strategie di politica estera, o se si leggono le dichiarazioni dello stesso Davutoğlu, questo termine non compare mai. È chiaro che la Turchia abbia cercato di riguadagnare un ruolo storico che è convinta di avere, ovvero il ruolo di paese centrale, sia da un punto di vista geopolitico, sia da un punto di vista identitario e religioso. La Turchia, fino al primo ventennio del Novecento, era la sede del Califfato, che le attribuiva una proiezione globale, quella che Erdoğan sta cercando di ricostruire, tramite riferimenti a vettori culturali e religiosi. Detto questo, se la vogliamo guardare in maniera comparativa con altri approcci di politica estera, io sono abbastanza scettico circa la polarizzazione estrema tra storia di successo e totale fallimento in relazione all’approccio turco nel contesto africano. Io credo che vi siano degli elementi innovativi che la Turchia ha portato con la propria politica in Africa. L’aspetto più interessante è riconoscere che, nel contesto africano, ci si trovi ormai di fronte ad una multipolarità di agende e progetti di sviluppo: non ci sono più solo quelli occidentali. Il Beijing Consensus è il principale, però non è l’unico perché abbiamo altri Paesi che hanno in qualche modo cercato di guadagnarvi influenza e di esportarvi dei modelli di sviluppo. Questo, a mio avviso, è un elemento molto rilevante della politica estera turca in Africa. Allo stesso tempo, però, non si possono negare quelli che sono i suoi grandi limiti. Il primo è, dal punto di vista normativo, il fatto che la Turchia, così come altri paesi non democratici, operi in Africa senza condizionalità, cioè senza legare gli investimenti a processi di democratizzazione e institution building. Questo è un elemento che l’avvantaggia se la paragoniamo ad un paese come l’Italia, che si muove all’interno di un quadro europeo, di legami atlantici. Un altro aspetto da considerare in un’ottica comparativa è il fatto che l’Italia, colpevolmente, si è fatta da parte nel contesto africano. Ciò è paradossale nel momento in cui si sta verificando quello che viene definito da molti il nuovo scramble for Africa con nuovi attori come Cina, India, Brasile, Corea del Sud, la Turchia stessa e i Paesi mediorientali. L’Italia fa quattro passi indietro. Attualmente, in alcune contesti come quello del Corno d’Africa, l’Italia si muove con alcune iniziative anche molto interessanti, cercando ad esempio di ricreare delle iniziative culturali, come Radio Mogadiscio. Ci sono dei tentativi, ma la sensazione è che si sia perso troppo terreno. Tali passi indietro si sono manifestati concretamente in occasione della liberazione di Silvia Romano, che ha messo in luce tutti i limiti della rete creata dall’Italia. L’Italia, per riuscire a creare un network che ha poi portato alla liberazione della cooperante italiana, si è dovuta appoggiare a quei due attori che godono di reti nel contesto somalo: la Turchia e il Qatar. L’Italia deve probabilmente cercare in qualche modo di adottare una politica estera più assertiva. Non voglio dire che debba imitare la Francia, in quanto non abbiamo la storia o le capabilities francesi, ma, in alcuni contesti, godiamo di una popolarità maggiore rispetto alla Francia, e questo è un vantaggio. È molto complicato fare una comparazione tra la politica estera turca e quella italiana. Sicuramente sono due potenze che, se da una parte hanno molti settori di competizione, allo stesso tempo sono due membri della NATO e potrebbero creare quadri cooperativi, in Africa come altrove.
Qui potete trovare la video intervista:
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