Nella foto: Quartiere di Al Waer, Homs © Omar Sanadiki/Reuters
Il 15 marzo 2021 ricorre il decimo anniversario dall’inizio delle proteste contro il regime di Bashar al-Assad e lo scoppio della guerra. Il conflitto non è oggi ancora concluso e la Siria vede sul suo territorio la presenza di numerose forze statuali e non statuali. Con Lorenzo Trombetta – corrispondente da Beirut per ANSA e collaboratore di Limes, Rivista Italiana di Geopolitica – cerchiamo di capire cosa significa parlare di ricostruzione in Siria e quali sono le principali criticità da considerare.
Partiamo da un aspetto più generale e legato alla sovranità dello Stato di Bashar al Assad. Il governo ha acquisito il controllo della maggior parte del territorio, ma nella regione settentrionale sussistono ancora forze molteplici. Tra queste compaiono quelle filogovernative come Russia, Iran e milizie sciite libanesi; vi sono inoltre le forze ribelli, tra cui le forze democratiche siriane curde e jihadiste. Vi è infine poi la presenza dello Stato turco. Come intervengono queste dinamiche nella ricostruzione, e quanto si può davvero parlare di ricostruzione centralizzata da parte di uno Stato che non ha ancora un controllo completo e stabile sul suo territorio?
Lorenzo Trombetta: Innanzitutto grazie per avermi coinvolto in questa chiacchierata e complimenti per il lavoro che fate. C’è da fare una premessa riguardo al tema e al concetto di ricostruzione in Siria. Nel discorso pubblico, in Siria ma soprattutto fuori, da quando il conflitto armato ha cominciato a far sentire meno il suo rumore è come se nella percezione comune dei decisori politici, delle istituzioni non siriane, dei donatori e di tutto il comparto umanitario il conflitto siriano fosse entrato in una nuova dinamica, che potremmo definire di post-conflitto. Nell’arco di due anni, in particolare dal 2017, si è cominciato a parlare di fine del conflitto e inizio della ricostruzione. La parola d’ordine degli ultimi due anni è stata ricostruzione, immaginando che prima la Siria sia stata distrutta e ora debba essere ricostruita. Un po’ come ho scritto nella serie per Limesonline e altrove, e come anche illustri esperti della questione siriana hanno detto, quello che emerge non è un meccanismo così rigido di fine conflitto armato e inizio della ricostruzione. Prima di tutto perché, come anche tu ricordavi, almeno in alcune aree della Siria, il conflitto continua a essere presente. Lo dimostra il fatto che sul territorio permangono numerosi attori armati sia statuali che non statuali. In secondo luogo, la ricostruzione non è un processo che può essere guidato da un centro di potere sovrano, ovvero quello di Damasco, libero dalle distrazioni della guerra. Questo forse può avvenire in altri contesti dove la sequenza conflitto-fine del conflitto è più netta, se mai esiste un momento in cui in conflitto armato cessa come d’incanto e allora si può pensare di rimettere sopra le pietre.
Un altro aspetto importante da evidenziare in via preliminare è che la ricostruzione non può essere intesa soltanto come infrastrutturale e materiale all’interno dello spazio urbano. C’è infatti una dimensione umana, comunitaria e di ripristino di un tessuto sociale. Questi due aspetti sono chiaramente legati. Queste premesse sulla ricostruzione ci servono per parlare di un altro aspetto fondamentale e che si applica a tutti i territori: non ci sono dei finanziatori principali della ricostruzione siriana e nemmeno esiste un attore che dirige, che esegue e che ha una strategia. Quindi l’assenza di canali diretti di fondi ma anche l’assenza di una testa che pianifica come e dove ricostruire, in base anche alle lezioni apprese dieci anni fa prima del conflitto, è un dato trasversale a chi controlla i territori. Quindi assistiamo a una ricostruzione molto timida in termini percentuali. Homs, per esempio, è la prima città dove il conflitto si è fermato nel 2015 e, dopo 5 anni e mezzo, la città rimane in larga parte distrutta perché mancano i fondi e i progetti. Sebbene esistano molti discorsi e molte iniziative infrastrutturali, la gente vive ancora in un contesto di città fortemente disastrata.
Possiamo parlare di due tipi di ricostruzione in Siria, in particolare nelle aree governative. La prima riguarda le zone che si ricostruiscono per provare ad attrarre nuovi investimenti, in questo caso dal Golfo – Emirati Arabi Uniti, Quwait – non tanto con iniziative governative di questi paesi, quanto tramite soggetti privati legati al sistema di potere di quelle zone. Questo tipo di ricostruzione riguarda quartieri periferici di grandi città come Damasco e Aleppo, nelle quali si mettono in atto progetti molto avveniristici e moderni sullo stile delle grandi città del golfo. Questa ricostruzione selvaggia – vista anche nella vicina Beirut – non tiene conto di dinamiche ecologiche e umane e, sebbene in Siria non si sia arrivati ai livelli di Dubai, i progetti infrastrutturali vanno in quella direzione per attirare investimenti. La seconda tipologia riguarda invece le aree in precedenza non fortemente sviluppate in precedenza che possono avere un potenziale di attrazione turistica. Anche in questo caso, il rischio di assistere a un tipo di ricostruzione nell’interesse di chi vuole speculare è molto forte. In entrambi i casi quindi non si sta ricostruendo per far tornare le persone alle proprie case – magari creando delle abitazioni a basso costo – ma si sta cercando di arricchirsi nel breve termine senza una visione di lungo periodo in termini di sostenibilità e di sviluppo delle comunità. Queste due tipologie per adesso prevalgono, ma siamo comunque in un contesto estremamente povero in termini di ricostruzione.
Parlavi del fatto che la ricostruzione non passa solo dalle infrastrutture, ma ha anche una dimensione umana. Vorrei ricollegarmi a questo per parlare di alcune delle conseguenze che la guerra ha avuto sulla popolazione civile. Nella regione settentrionale vive la più grande comunità di sfollati interni. Menzionavi il fatto che non esista un disegno politico chiaro su come ricollocare, ricostituire comunità per queste persone. Come pensi che questo problema nel lungo periodo possa essere affrontato? Quale potrebbe essere la prospettiva?
Lorenzo Trombetta: Innanzitutto, quando parliamo di regione settentrionale dobbiamo distinguere i contesti territoriali. Nell’area nord-ovest, approssimativamente a nord e a ovest di Aleppo e a ridosso del confine della Turchia, il territorio è sotto il controllo diretto o indiretto turco. Nella zona ci sono, secondo l’ONU, più di 2 milioni e mezzo di civili – tra cui moltissime donne e bambini – con urgente bisogno umanitario. Al di là poi di questa classificazione piuttosto rigida delle Nazioni Unite, in quella regione si concentra la quantità più grande di civili siriani che se la passa peggio rispetto ad altre aree. Numericamente ma anche a livello di criticità umanitaria quella è la regione dove c’è la maggiore attenzione da parte delle Nazioni Unite e del settore umanitario. In effetti, lì c’è la maggiore pressione demografica sui grandi agglomerati di campi che si stanno trasformando in città-dormitorio in aree collinari mai state urbanizzate. Eppure queste nel corso degli anni sono state sovraffollate dall’arrivo disperato e non programmato di decine e poi centinaia di migliaia di persone. Tali folle si sono concentrate lungo il confine sperando di poter passare dall’altra parte – prima che la Turchia chiudesse i confini – e anche per essere meno esposti ai bombardamenti. Trovarsi vicino al confine offriva a quei gruppi un maggior senso di protezione, più o meno reale. Il confine ha inoltre una dimensione economica basata su passaggi informali leciti o illeciti attraverso il contrabbando di soldi e merci. Nel nord-ovest c’è una Siria nuova non pianificata – così com’è successo in Libano – dove il campo di profughi, se non viene inglobato in una strategia di inclusione nelle città vicine, diventa un luogo dove le famiglie vivono stabilmente. In questo contesto i bambini nascono, esistono scuole, servizi essenziali molto precari ma che in qualche modo consentono alla popolazione di sopravvivere. A nord di Idlib e a ovest di Aleppo, ci sono due zone fortemente dense di profughi attorno a villaggi che nel 2010 avevano poche decine di abitanti, per lo più allevatori e contadini, e che oggi contano una popolazione fino a dieci volte maggiore. Dalle foto satellitari vediamo come una regione rurale oggi sia fortemente urbanizzata in una maniera non pianificata e con conseguenze ecologiche e ambientali molto serie. Per riscaldarsi, per esempio, la gente ha abbattuto gli alberi innescando un processo di deforestazione che crea disastri ambientali – come gli smottamenti – che ricadono sulle tende e sui prefabbricati degli stessi profughi. Così come per le risorse idriche, non c’è un controllo sulle politiche agricole e spesso le acque sono inquinate. Tutto questo avrà chiaramente delle ripercussioni nel medio e nel lungo termine. Della ricostruzione simile alle aree di Aleppo e Damasco non c’è ombra. La Turchia non è interessata a ricostruire le piccole-medie città che controlla. Idlib è la città più grande che la Turchia controlla e non ha vissuto l’espansione incontrollata di città e villaggi più vicini al confine.
È di un paio di settimane fa la notizia delle infiltrazioni sempre più numerose di milizie filo-jihadiste nel campo profughi di Al Hol, nel nord-est della Siria, controllato da curdi e che ospita circa 70mila persone tra cui molti familiari dei combattenti IS. Può manifestarsi, magari sotto mutate forme, un’organizzazione terroristica islamica in questi contesti di assenza dello Stato?
Lorenzo Trombetta: Passando al nord-est, dove c’è il campo di Al Hol che tu menzioni, le criticità umanitarie sono molto alte e forse se ne parla meno perché quantitativamente ci sono meno persone che vivono in contesti disperati. Questo non significa che siano poche. Si parla di centinaia di migliaia di sfollati per lo più siriani che vivono in un’area controllata formalmente dai curdi con la presenza però di numerosi altri attori: militari di Stati Uniti, Russia e Turchia, milizie ausiliarie delle forze governative di Damasco, gruppi di soldati governativi siriani, una serie di milizie vicine all’Iran e milizie cooptate da Ankara. Tutte queste forze hanno chiaramente un’influenza sulla mobilità delle persone da una zona a un’altra e anche sull’assenza di politiche di ricostruzione in un’area appunto contesa. Non a caso, si sta provando a ricostruire – timidamente come dicevo prima – in aree relativamente stabili o stabilizzate. Nelle aree del Nord lo scontro o la negoziazione per la spartizione territoriale è invece ancora in corso fra questi attori interni, regionali ed esterni.
Nel campo di Al Hol lo Stato Islamico è presente sin dal 2018, dunque l’assunto che ci siano infiltrazioni jihadiste è errato. Il campo di Al Hol nasce in realtà nel 1990-91, in un momento in cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati crea uno spazio vicino alla cittadina di Al Hol al confine con l’Iraq per ospitare dai 5 ai 10 mila profughi in fuga dalla Guerra del Golfo. Nel corso degli anni, Al Hol ha ospitato numerose ondate di profughi che provenivano dall’Iraq. Il campo ha visto passare molti ospiti ma, dalla fine del 2018 fino alla primavera del 2019, è diventato un campo con circa 70mila persone fuggite dal sud-est della Siria. I profughi hanno percorso decine di chilometri a piedi per giungere in queste aree che i curdi e gli USA chiamavano “liberate” dalla presenza dello Stato Islamico. Già prima della parentesi dello Stato Islamico tra il 2014-2015 e l’offensiva curdo-statunitense, l’area del nord-est aveva vissuto un conflitto armato sin dal 2012. Nel 2019, decine di migliaia di persone arrivano ad Al Hol e vengono ospitate nel campo senza che ci fosse stata una pianificazione da parte della colazione a guida americana. Gli USA, infatti, guidavano l’offensiva militare contro i territori controllati dallo Stato Islamico ma non avevano pensato alle conseguenze di questa campagna in termini di sfollamento di così tante persone. In maniera improvvisata quindi, le forze curdo-siriane hanno allestito e allargato sempre più la disponibilità di questo campo, che non è chiaramente in grado di reggere una pressione demografica di questo tipo. Le persone che sono ad Al Hol sono familiari degli ex-combattenti jihadisti che hanno vissuto in contesti di privazione e marginalizzazione nella regione orientale siriana ancora prima del 2011; la zona è ricchissima di risorse energetiche ma al contempo è stata sfruttata per decenni dal potere centrale. L’ISIS, come ho raccontato nella puntata di Potere e Ricostruzione e in numerosi articoli su Limes, non viene dall’esterno ma nasce in questi contesti siriani e iracheni che hanno servito da incubatori locali. Per questo il termine “infiltrazioni” nel campo fa pensare che l’ISIS arrivi da chissà dove quando in realtà è sempre stato presente. In un campo ignorato da tutto il mondo, migliaia di giovani e non solo continuano a ritenere che l’ISIS sia un’alternativa ideologica possibile. Si tratta ovviamente di una retorica populista, ma dobbiamo immaginare che questi esseri umani da almeno da dieci anni si trovano in condizioni umanitarie disperate senza che nessuna forma civile, istituzionale dia loro un barlume di speranza. In più, si tratta di un contesto tradizionale e conservatore in cui per esempio gli Stati Uniti sono visti come una potenza occupante sin dall’invasione anglo-americana dell’Iraq, e i curdi sono percepiti da decenni dalle popolazioni arabe del sud-est della Siria come non-amici. Per loro, dunque, Al Hol è una prigione e chiunque voglia promuoversi socialmente, fare qualche soldo o vendersi al miglior offerente aderisce all’ISIS. Nell’ultimo mese – febbraio 2021, ndr – sono state uccise 30 persone tramite esecuzioni e regolamenti di conti in cui l’ISIS è coinvolto. Ma ancora più dell’IS c’entrano la disperazione e l’assenza di prospettive. Tutto questo avviene chiaramente lontano da ogni premessa di ricostruzione. Anche perché nel campo di Al Hol la metà dei profughi sono civili iracheni, e dunque bisogna domandarsi quali prospettive questi avranno nelle comunità al confine tra Siria e Iraq.
Un’altra conseguenza della guerra sulla popolazione civile è stata la fuga verso altri paesi. Tante di queste persone non hanno intenzione di far ritorno sia per motivi economici ma anche perché non c’è stata alcuna transizione politica. I sondaggi condotti da ONG e dalle agenzie delle Nazioni Unite nelle principali isole greche di arrivo dei siriani affermano che, nella maggior parte dei casi, i profughi hanno concluso il ciclo di educazione superiore e/o universitario. Tali fuggitivi siriani occupavano quindi posizioni cruciali quali medici, architetti, ingegneri prima della guerra. C’è dunque una perdita di capitale culturale: queste persone non prenderanno parte alla ricostruzione e lo Stato non potrà servirsene dopo aver investito per la loro istruzione. Quanto pesa e peserà sulla ricostruzione la perdita del capitale culturale a causa delle migrazioni?
Lorenzo Trombetta: Grazie per la domanda perché mi consente di aprire una piccola parentesi sulla percezione che si ha sul profugo e sulla sua formazione educativa. Nell’opinione europea, nord-mediterranea ed occidentale pensiamo al profugo e a chi scappa come qualcuno di reietto che ha soltanto il suo corpo da portare via e non abbiamo contezza della tridimensionalità di questo individuo. Ci si stupisce allora che queste persone abbiano studiato perché pensiamo che in paesi affetti da crisi e guerre non si studi e non si raggiungano qualifiche elevate come quella universitaria. Poi scopriamo però che queste persone hanno gli stessi nostri titoli di studio, al di là della lingua in cui hanno studiato, e che non sono soltanto dei raccoglitori di pomodori. Ricordo un aneddoto di un caro amico, Amara Lakhous, adesso scrittore affermato che insegna alla Columbia University di New York, che quando conobbi faceva il dottorato a Roma: Amara si era trovato come immigrato algerino a Roma e fu notato da un professore di antropologia mentre scaricava cassette di frutta al mercato. Fu notato perché parlarono di filosofia e si scoprì che era laureato in filosofia. Amara ha continuato il suo percorso di studi togliendosi l’etichetta di immigrato e ha fatto valere quello che lui era.
Non soltanto la Siria ma anche altri paesi producono cultura e formazione educativa. Da anni sento dire nelle riunioni delle Nazioni Unite che dobbiamo ricordarci che la Siria non è come un paese del Centrafrica ma è altamente alfabetizzato. Il fatto che dobbiamo ricordarci di questo aspetto mi fa rilevare l’atteggiamento di partenza: ci si sorprende che in un paese a 3 ore di volo da Milano o Roma, nonostante un potere autoritario e una storia travagliata, si conseguano dei diplomi.
È vero però che il capitale umano e culturale è fortemente depauperato in Siria: 6 milioni di persone hanno lasciato il paese e mezzo milione è morto. Proprio grazie alla densità della formazione educativa che c’era, tantissimi diplomati e laureati non sono più in Siria e non possono partecipare allo sforzo di ricostruzione. Ad ogni modo, sono quotidianamente in contatto per il mio lavoro con tanti siriani che, volenti o nolenti, sono rimasti e hanno trovato una dimensione lavorativa in Siria. Tante delle loro storie andrebbero raccontate a una a una, ma le cito unicamente per dire che in Siria fortunatamente esistono percorsi di persone che sono rimaste e che partecipano alla ricostruzione non tanto infrastrutturale – tema ancora non presente e che non può riguardare individui della società civile – quanto intellettuale.
Ci sono poi i tanti siriani della diaspora che partecipano ad attività di ricostruzione familiare o di alcuni quartieri attraverso dinamiche personali, familiari e claniche. La diaspora continua ad avere un legame molto stretto con la madrepatria. Queste persone sono profondamente segnate dal senso di colpa e dall’esilio più o meno forzato; c’è dunque una discrepanza tra il siriano che vive in Europa o altrove e colui che è rimasto in Siria. Ma la diaspora non è necessariamente qualcosa che è uscito e che non c’è più. Le diaspore partecipano in maniera più o meno attiva in termini di rimesse economiche e non solo. Posso citare un esempio: a Bruxelles, su iniziativa di alcuni siriani che da anni sono fuori dal paese – in alcuni casi anche prima del conflitto armato del 2011 – è stato creato un network che si chiama DNA, Diaspora Network Alliance. DNA è formato da siriani altamenti specializzati nelle loro professioni, e tra questi molti sono parte del tessuto sociale e istituzionale europeo. Nella loro identità ibrida – molti di loro hanno passaporti europei – essi lavorano, non solo per ricostruire la Siria all’interno della Siria, ma anche per far sì che la diaspora vada oltre il fatto di mandare soldi alle proprie famiglie. Lo scopo è quindi riprodurre la frammentazione comunitaria in Siria anche nei territori della diaspora. Ci sono pertanto molti tentativi di ritorno non solo economico e finanziario ma anche culturale.
La Siria ha un panorama sociale estremamente variegato ed eterogeneo, e proprio adesso menzionavi le comunità in riferimento alla diaspora. A livello settario, c’è un riferimento nuovo alle comunità in senso di appartenenza e solidarietà o piuttosto in senso divisivo all’interno del contesto territoriale?
Lorenzo Trombetta: Anche questo è un tema molto articolato. In Europa, e in tutto l’occidente cosiddetto sviluppato, la crisi aggravata dalla pandemia ha acuito certe spinte e pulsioni identitarie. La crisi ha inoltre enfatizzato la necessità dei gruppi di arroccarsi attorno a delle percezioni di identità più o meno esclusive. Il “noi” è qualcosa di più stretto e l’“altro” si è allargato. Questo è visibile nei media e nella produzione culturale in cui c’è molta attenzione al nostro piccolo ombelico, quale che sia, e tutto ciò che è esterno: se non è una minaccia, è comunque qualcosa che rimane sullo sfondo. Non soltanto non si parla più di esteri se non in termini vaghi e folkloristici, ma la pandemia ha aumentato il senso di insicurezza: questo porta a cercare di proteggersi cercando solidarietà. Nel contesto siriano, la nascita del confessionalismo politico e l’appartenenza comunitaria come elemento divisivo politico hanno una data di inizio verso la metà del 1800. Nonostante un certo tipo di retorica secondo cui in Siria nessuno chiedeva di che religione era il proprio vicino, e che prima del conflitto Damasco era un “mosaico armonioso” (in contrapposizione al Libano), in realtà le differenze comunitarie esistono da 150 anni. Quindi già prima del conflitto il territorio era pronto per dividersi lungo linee comunitarie ben distinte. La guerra, con la sua violenza e distruzione, ha esposto gli individui e i gruppi all’insicurezza e ad un contesto di estrema vulnerabilità. Pensiamo ad esempio che in Siria da un anno viviamo una crisi economica senza precedenti che è causata dal conflitto ma che non necessariamente è percepita come parte di esso. Questa vulnerabilità si articola su una scala da noi non immaginabile. Provenendo dal Libano e arrivando qui mi rendo conto che, nonostante io viva in Libano in una scala privilegiata, l’Italia mi sembra un mondo estremamente capace di resistere alle crisi. La mia scala di valore è tarata su altri tipi di vulnerabilità, non la mia per fortuna, e vivendo in un contesto assai più disastrato mi rendo conto di quanto possa essere naturale cercare una solidarietà di tipo identitario.
Con una lettura un po’ esotista ed orientalista, spesso consideriamo gli abitanti di questi paesi come barbari che si fanno la guerra e si dividono per un modo diverso di pregare. Tuttavia, entrando dentro alla complessità, ci si rende conto invece che la crescita dell’appartenenza comunitaria e la polarizzazione identitaria non è altro che una reazione umana alla necessità di proteggersi, di cercare un appiglio. Si tratta di contesti in cui non si può parlare di Stato-nazione inteso come quello in cui siamo cresciuti noi europei negli ultimi secoli. Stiamo parlando di una struttura di governance a livello centrale e locale estremamente diradata e dove il rapporto tra élite locale, istituzione e potere informale è la norma. Per cui, per ottenere un permesso o una licenza per aprire un negozio, guidare il taxi, iscriversi a una scuola privata e una quantità innumerevole di altre azioni quotidiane è necessario attivare una dinamica identitaria attraverso una mediazione – in arabo wasta – legata all’appartenenza familiare. Questa figura può riguardare un parente oppure un imam o altre cariche. Questa è la normale gestione degli affari in un contesto dove lo Stato non è così presente e non è monolitico. Ecco perché la retorica e anche la pratica sono fortemente condizionate dall’appartenenza comunitaria. Queste dinamiche non sono rintracciabili solo in questa regione. Basti infatti pensare alle aree “grigie” presenti nell’Italia centro-mediorientale dove la religione è grossomodo unica ma sussistono differenze sulle quali ci arrocchiamo e che hanno consentito la crescita dei movimenti populisti.
Qui la versione video dell’intervista:
Rispondi