Riflessioni su un Europa inconsapevole sulle sfide attuali

Cristiano A. Fortunato |

Il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. Cosa è successo in questi quattro anni? Facciamo un brevissimo riassunto dei movimenti sul campo di battaglia. 

Le forze russe varcano il confine ucraino, avanzano rapidamente e arrivano alle porte di Kiev, nei pressi dell’aeroporto di Hostomel e nelle città di Irpin e Bucha. A causa di gravi difficoltà logistiche e grazie ad una efficace controffensiva ucraina, Mosca decide poi di ritirarsi dal fronte settentrionale, salvo successivamente vedersi colpita da alcune unità ucraine perfino nell’oblast di Belgorod. 

Nel frattempo, cosa è accaduto a Bruxelles e nelle principali capitali europee? Al di là dei grandi proclami, l’UE non è stata in grado di soddisfare in modo adeguato le richieste di Kiev, anche a causa delle gravi carenze produttive che affliggono l’industria militare europea. Le armi sono arrivate in ritardo: prima i carri Leopard, a lungo bloccati dalla Germania, poi gli F-16. 

Gli Stati Uniti, dal canto loro, almeno durante la presidenza Biden, non hanno dimostrato di voler sostenere pienamente l’Ucraina. Gli aiuti sono stati forniti in quantità sufficiente per sopravvivere e spesso arrivati in ritardo. L’Europa non è riuscita a costruire una strategia autonoma nei confronti della Russia e Ucraina, trovandosi costantemente a rimorchio degli Stati Uniti (non per colpa statunitense), e delle iniziative di Washington, in particolare nell’ultimo anno, segnato dall’iperattività di Trump e dai 28 preparati da Witkoff e Dimitriev. 

L’Europa è dunque destinata a essere una nave in balia della tempesta? Non necessariamente. I singoli Stati europei contano poco o nulla; l’Unione Europea, invece, conterebbe molto (seconda economia mondiale e circa 500 milioni di abitanti parlano da soli), quello che manca è però la forza politica per renderlo realtà. Una forza che deriverebbe da un minimo di unità di intenti tra gli Stati membri, oggi difficile da raggiungere a causa della presenza di paesi apertamente ostili al progetto europeo, ma al tempo stesso fortemente dipendenti dai miliardi di euro in sussidi comunitari: Budapest in primis, ma anche Slovacchia, e altri più o meno su posizioni ambigue (approfondiremo il tema successivamente).  

E se dall’altra parte l’Europa avesse la forza materiale, in termini di capacità militari, capacità che richiederebbero decisioni politiche forti. È qui che entra in gioco il tema centrale di questo discorso: la guerra ibrida, termine ormai di uso comune, spesso abusato nel dibattito mediatico. 

Negli ultimi anni, ogni volta che si è parlato di aumentare la spesa per la difesa o di investire in armamenti, si sono viste scendere in piazza ondate di giovani e meno giovani. A ciò si sono aggiunte discussioni infinite nei talk show, spesso prive di una reale prospettiva strategica, sul tema se fosse giusto o meno acquistare armi. Eppure, la questione non dovrebbe essere se sia moralmente giusto spendere per i cannoni anziché per il burro, ma se ciò sia necessario, in un contesto in cui, senza cannoni, potremmo non avere più nemmeno il burro domani. 

Senza ricorrere ad allarmismi, è però necessario riconoscere che sul conflitto in Ucraina (e non solo), sulle sue cause e su ciò che sarebbe stato necessario fare, si è diffusa una quantità enorme di false notizie e narrazioni completamente distaccate dai fatti (i Fatti, quelli che per alcuni sembrano non esistere). Si è propagata l’idea che la guerra sia scoppiata a causa dell’“abbaiare della NATO” ai confini russi, quando il tema dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO o nell’UE non era nemmeno all’ordine del giorno. Lo stesso vale per i presunti laboratori batteriologici sotterranei, per i missili NATO e per le basi militari occidentali sul suolo ucraino: dopo quattro anni, prove concrete non ne sono mai emerse. 

Dobbiamo prendere atto che siamo coinvolti in un conflitto con un avversario che non ci colpisce principalmente con missili e proiettili, ma con la disinformazione. Notizie false o parzialmente vere vengono diffuse per suscitare emozioni forti, generare confusione nel lettore medio, alimentare indignazione e indurre a prendere posizioni funzionali agli interessi di potenze esterne. Da qui la narrazione di un’Ucraina “piena di nazisti” o di un Zelensky che acquisterebbe ville in tutto il mondo con i soldi dei contribuenti europei. 

Ma la guerra ibrida non si esaurisce nella propaganda. Negli ultimi anni droni non identificati hanno sorvolato aeroporti, basi militari e territori europei. Inchieste giornalistiche hanno mostrato legami tra questi episodi e navi riconducibili alla Russia, impegnate in movimenti anomali nel Mediterraneo, con scali nel porto di Tartus in Siria e navigazioni senza meta lungo le coste tedesche. Non sono mancati sabotaggi infrastrutturali, come le esplosioni su linee ferroviarie essenziali per i rifornimenti all’Ucraina in Polonia, ma anche cavi sottomarini recisi. Droni che hanno sconfinato in territorio polacco, rumeno e moldavo. Eclatante il caso dei 20 droni caduti in una sola notte in Polonia nel mese di settembre. L’uso di armi economiche e energetiche, come il rifornimento di prodotti energetici, un esempio è la Bulgaria in cui l’unica raffineria del paese era di proprietà di Lukoil.  

A ciò si aggiungono le interferenze nei processi democratici. Le elezioni in Moldavia e Romania hanno mostrato quanto possano essere permeabili le nostre democrazie: campagne alimentate dalla disinformazione, fondi non dichiarati, candidati emersi grazie a piattaforme come TikTok. Senza entrare nel merito delle decisioni adottate, è utile concentrarsi sui mezzi e sugli obiettivi di queste operazioni. Del resto, non si tratta di una novità: dalle interferenze nella campagna per la Brexit alle troll factory, fino agli attacchi cyber contro l’Estonia nel 2008, pratiche simili continuano ancora oggi. A ciò si aggiunge la comprovata disponibilità della Russia a usare la forza militare, come dimostrano Cecenia, Georgia 2008 e Crimea 2014 e i famosi omini verdi. 

Il pericolo è che l’Europa non sia più in grado, nel prossimo futuro, di muoversi liberamente sullo scacchiere internazionale. La nostra dipendenza dagli Stati Uniti nel conflitto ucraino, come sottolineato da Nathalie Tocci sul Guardian, si è tradotta nell’impossibilità per l’UE di opporsi alle azioni di Trump contro l’Iran la scorsa estate – anzi, alcuni paesi europei si sono accodati alla linea di Washington – e nell’incapacità di assumere una posizione forte su Gaza, con la conseguente perdita di influenza in Medio Oriente. Anche qui, va detto, non si tratta solo di una responsabilità esterna. 

Gli Stati Uniti hanno inoltre mostrato segnali di progressivo disimpegno dall’Europa, accompagnati da attacchi verbali all’UE e tentativi di delegittimare il progetto europeo. Questo, unito all’azione russa, pone l’Europa tra due fuochi: da un lato Mosca, che mira a sfruttare le divisioni interne per indebolire l’UE attraverso la disinformazione e il sostegno indiretto a movimenti populisti ed estremisti; dall’altro Washington, che vuole disimpegnarsi in Europa, un Trump che attacca apertamente Bruxelles e secondo un articolo pubblicato su Defence One esiste un progetto per spingere l’uscita di singoli paesi dall’Europa, tra cui l’Italia, con conseguenze economiche potenzialmente disastrose. 

In questo contesto emerge anche il ruolo ambiguo di alcuni governi europei. L’Italia, ad esempio, dichiara un forte sostegno all’Ucraina e rivendica un ruolo di ponte tra Europa e Stati Uniti, ma nei fatti mantiene una posizione prudente. Il passato politico di Giorgia Meloni e i suoi rapporti con Orbán sollevano interrogativi sulla reale convinzione europeista del governo, forse più funzionale a rassicurare le agenzie di rating e contenere il costo del debito che a rafforzare davvero l’integrazione europea. 

Qual è dunque l’obiettivo russo e, in parte, americano (anche se non del tutto sovrapponibili)? Forse un classico divide et impera. Oppure come osserva Vittorio Emanuele Parsi, in Europa si confrontano due progetti egemonici: quello europeo, fondato su liberal-democrazia, stato di diritto, diritti umani e mercato; e quello russo, basato sulla violazione sistematica delle regole, sul primato della forza e su un’economia al servizio del potere. Estendere questo modello richiede l’indebolimento dell’UE e l’ascesa di forze politiche locali populiste e filorusse, come dimostrano i noti legami tra Russia Unita e partiti come la Lega o il Rassemblement National. Altri partiti mostrano un sostegno timido nei confronti dell’Ucraina come M5S. 

In questo scenario, come ricorda Carlo Masala, la questione centrale diventa la credibilità della deterrenza: chi sarebbe davvero disposto a rischiare un conflitto con la Russia per difendere una piccola cittadina estone? E cosa accadrebbe alla NATO e all’UE (aggiungerei) se la risposta fosse incerta? 

Sono domande scomode, ma inevitabili. Da esse dipende il futuro dell’Europa come attore politico autonomo, o la sua trasformazione definitiva in uno spazio conteso da potenze esterne.  

In questo quadro si inserisce l’importanza dell’accordo Mercosur, la cui votazione è stata posticipata di un mese. Accordo che è divenuto ancora più importante dopo l’introduzione dei dazi statunitensi, questo perché permetterebbe all’UE di vedersi aperti nuovi mercati. Producendo un effetto positivo su un’economia europea che cresce poco. Ciò dimostrerà soprattutto la volontà europea di guardare oltre agli USA e quindi un cambiamento necessario per una maggiore autonomia strategica europea.  

Per concludere, il vecchio continente dovrà affrontare non poche difficoltà ed è giunto il momento di prendere una serie di decisioni a lungo rinviate che determineranno il nostro futuro. 

Bibliografia 

  • Carlo Masala, Se la Russia attacca l’Occidente. Uno scenario possibile, Rizzoli 2025 
  • Peter Pomerantsev, Questa non è propaganda: Avventure nella guerra contro la realtà, Bompoani, 2020 

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