REBECCA ROMAGNOLI | Il risultato delle elezioni israeliane dello scorso 23 marzo – le quarte in appena tre anni – ha messo in luce, oltre alla grave e complessa crisi politica interna che ormai va avanti dal 2019, il ruolo dei partiti arabi di Israele. In particolare, il Ra’am di Mansour Abbas, ovvero il partito rappresentante il cosiddetto ramo meridionale del Movimento Islamico israeliano, è riuscito non solo a superare la soglia di sbarramento minima del 3,25%, ma addirittura – e con stupore di molti – a ricoprire il ruolo di ago della bilancia nell’ambito dei controversi dialoghi per la formazione del futuro governo israeliano [1]. Lo scorso 6 aprile, infatti, il Presidente Rivlin ha conferito al Primo Ministro uscente l’incarico di formare il nuovo governo; compito arduo e dai molteplici possibili esiti, se si considera che la coalizione pro Netanyahu conta cinquantadue seggi, mentre quella contro il leader del Likud ammonta a cinquantasette. A decidere le sorti della futura conformazione governativa, quindi, potrebbe essere, oltre a Yamina di Naftali Bennet, il partito islamico di Abbas.
Proprio nell’ambito delle discussioni sull’ipotetico scenario di un governo di coalizione tra il Likud, i partiti religiosi ultra ortodossi e quelli di destra o estrema destra con un partito arabo islamico come il Ra’am si è iniziato a discutere di quali potrebbero essere le istanze e le prerogative che Abbas potrebbe portare al tavolo delle trattative davanti a Netanyahu. A tal proposito, il Ra’am, lo si ricorda, aveva deciso di uscire dall’alleanza della Joint List pochi mesi prima delle elezioni di marzo 2021. In particolare, questa situazione per cui – per la prima volta nella storia politica di Israele – un partito arabo potrebbe arrivare a far parte della maggioranza di governo, ha inevitabilmente riportato all’attenzione generale alcune questioni circa il ruolo della minoranza araba nelle dinamiche interne del Paese, quali il livello di inclusione di questa, il problema della violenza urbana e della disuguaglianza economica e civile.
In riferimento a quest’ultima tematica, ovvero l’uguaglianza civile e il rispetto dei diritti collettivi della comunità arabo-israeliana, gli animi si sono accesi nuovamente in merito alla tanto discussa “Legge fondamentale: Israele quale stato-nazione del popolo ebraico” [3]. Secondo molti, infatti, in cambio dell’appoggio al governo di Netanyahu con i suoi quattro seggi, Abbas potrebbe richiedere, tra le altre cose, di riaffrontare la questione della Legge quasi-costituzionale adottata dalla Knesset nel 2018, e criticata fin dalla sua adozione dalla popolazione e dalla leadership araba per i suoi intenti e contenuti, giudicati “divisivi e anti-democratici” [4]. A prescindere dall’esito delle consultazioni, è interessante soffermarsi proprio sul fatto che il dibattito relativo alla Legge sullo stato-nazione e – in generale – alle condizioni socio-economiche e civili della comunità araba di Israele, sia tornato a far discutere. Inoltre, ciò dimostra la progressiva tendenza dei maggiori partiti arabi a includere nelle proprie piattaforme politiche obiettivi sempre più inerenti al miglioramento della condizione della comunità araba, e sempre meno concernenti, invece, le tematiche più strettamente connesse alla questione palestinese. Parallelamente, il mutamento degli interessi politici rispecchia la volontà dell’elettorato arabo stesso di raggiungere la tanto agognata uguaglianza civile, essere riconosciuto come minoranza nazionale, migliorare il proprio status sociale ed economico e, in ultima analisi, sentirsi pienamente parte di quello che considerano a tutti gli effetti il loro stato.
Ad ogni modo, risulta ora interessante andare ad analizzare brevemente le ragioni per cui la Legge fondamentale del 2018 desti tuttora non poche critiche. Nonostante il carattere legalmente non vincolante dei provvedimenti contenuti nel testo della norma, il principale oggetto di controversia tra i sostenitori della necessità della Legge scritta e i suoi oppositori riguarda proprio l’intento e il carattere complessivo di questa, ovvero riaffermare la natura ebraica dello stato di Israele [5]. Le undici sezioni in cui si suddivide la Legge affrontano tematiche diverse, dalle quali emergono i punti chiave attorno cui si è costruito tale dibattito: dalla scelta di alcuni termini linguistici che sembrano indicare la volontà di evidenziare l’appartenenza a un popolo più che allo stato-nazione; le questioni legate ai simboli e allo status della lingua araba; Gerusalemme come unica capitale; il rapporto tra lo stato israeliano e il popolo ebraico della diaspora; fino alla controversa questione degli insediamenti. In realtà, uno dei più importanti fattori di divergenza consiste, più che in una delle dichiarazioni contenute nel testo, in un’importante omissione: l’assenza dei concetti di uguaglianza e democrazia all’interno del testo di legge rappresenta motivo di grande contestazione [6] [7].
L’opposizione tra fautori e critici della Legge, infatti, fa capo a due visioni deontologiche diametralmente opposte, che riguardano la natura stessa dello stato di Israele. I sostenitori della visione di Israele come stato ebraico e democratico sostengono l’importanza di riconoscere tali valori come i princìpi fondanti, in forza dei quali esso riesce a garantire pienamente il diritto all’uguaglianza tra i cittadini [8]. A tale interpretazione, i fautori della visione di uno stato di tutti i suoi cittadini – la maggior parte dei quali provenienti dalla comunità araba – oppongono una visione dell’apparato statuale che, a loro avviso, dovrebbe semplicemente identificarsi in uno stato democratico, garante del diritto all’uguaglianza civile, indipendentemente dalla religione e origini etniche dei suoi cittadini [9].
Sebbene le prospettive di un futuro governo di alleanza tra partiti ebraici e partiti arabi si stiano facendo sempre più concrete – al netto delle molteplici difficoltà e rivalità interne che l’arena politica araba dovrà superare – il discorso identitario e il dibattito pubblico circa lo status civile della minoranza araba di Israele sono – e saranno sempre più – al centro delle relazioni sociali e delle dinamiche politiche sia all’interno della comunità araba, sia tra le leadership politica di quest’ultima e le controparti ebraiche.
Note:
Fonte foto: “Mansour Abbas – From pariah to powerful? – analysis”, Gil Hoffman, “The Jerusalem Post”, March 16 2021
[1] The Times of Israel, Joint List of Arab parties splinters, as Ra’am decamps in a perceived win for PM, 4 February 2021, https://www.timesofisrael.com/3-of-4-arab-parties-agree-on-united-run-as-raam-decamps-joint-list/.
[3] The Knesset, Basic Laws, Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People, 2018, https://knesset.gov.il/laws/special/eng/BasicLawNationState.pdf.
[4] Allison Kaplan Sommer, Basic Law or Basically a Disaster? Israel’s Nation-State Law Controversy Explained, Haaretz, August 6, 2018, https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-s-nation-state-law-controversy-explained-1.6344237-.
[5] The Israeli Democratic Institute, Nation-State Law Explainer, 18 July 2018, https://en.idi.org.il/articles/24241.
[6] Shmuel Sandler, Israel’s Nationality Law Is Not Discriminatory, The Bes Center for strategic studies, Ben-Ilan University, 10 August 2018, https://besacenter.org/perspectives-papers/israel-nationality-law-discrimination/.
[7] Alon Harel, Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish, “People Nationalities Papers”1-8, 2020, pp. 2-3.
[8] Alexander Yakobson and Amnon Rubinstein, Israel and the Family of Nations: The Jewish Nation-State and Human Rights, Routledge, Taylor & Francis Group, 2008.
[9] As’ad Ghanem and Mohanad Mustafa, Coping with the Nakba: The Palestinians in Israel and the ‘Future Vision’ as a Collective Agenda, “Israel Studies Forum”, vol. 24, no. 2, 2009.
Rispondi