Urban Warfare

img-20180921-wa0005  Francesco Gavazzicropped-limes-club_300

 

Introduzione

Le città, lungo il corso della storia, hanno ricoperto un ruolo di primaria importanza durante la condotta delle campagne militari. Quasi sempre associate ad obiettivi strategici, oggi come allora, presentano spesso una serie di caratteristiche che le rendono le vere chiavi di volta di un’operazione bellica: una posizione tattica certamente privilegiata nella geografia del territorio, la concentrazione di edifici vitali per il potere e la burocrazia del paese, il loro forte valore simbolico e la grande quantità di risorse sia materiali sia umane che possono offrire. Mentre queste caratteristiche basilari hanno attraversato immutate i secoli, le città si sono nel frattempo evolute fino a diventare aree metropolitane così estese e così complesse sia da un punto di vista topografico – data la quantità di infrastrutture e servizi vitali per il suo funzionamento – sia da punto di vista logistico e soprattutto da quello umano, visto il mosaico etnico-culturale di cui si compongono, da rappresentare una vera e propria sfida per qualunque esercito vi si avvicini. Combattere nelle città, specialmente dove si registra un tasso di densità particolarmente alto, è una delle maggiori preoccupazioni di ufficiali e generali. Operare nel contesto urbano di una qualunque grande città – sia questa situata in Medio Oriente, nel sub continente indiano o ai margini di enormi megalopoli come Rio de Janeiro – costituisce una serie di difficoltà assai maggiori rispetto alla conduzione di operazione belliche tradizionalmente intese. Immaginiamo di trovarsi immersi nel cuore di un agglomerato urbano come Baghdad, Aleppo o Mosul: qui, a farla da padrone, sono una serie inestricabile di dedali ed anguste stradine; un labirinto architettonico capace di ridurre sensibilmente lo strapotere tecnologico degli eserciti convenzionali, un alveare, potenzialmente inesauribile, di nemici pronti ad attaccare da ogni possibile direzione e senza logica tattica apparente, un vero e proprio campo minato in cui ogni situazione può, completamente all’improvviso, trasformarsi in un pericolo mortale.

In un mondo che sta vivendo profonde trasformazioni, la costante crescita demografica e la conseguente urbanizzazione aumenteranno vertiginosamente la possibilità che un numero crescente di operazioni militari si svolga in contesti urbani estremamente complessi. La storia e le lessons learned dimostrano che l’ambiente urbano offre notevoli sfide sotto ogni aspetto.

La natura stessa dell’area urbana influisce profondamente sull’intero warfare, dal livello operativo fino a quello strategico, mutandone quindi sia l’approccio pratico che quello teorico. Una sfida continua dunque, davanti alla quale è ben non farsi trovare impreparati. 

 

1. La trasformazione delle città: tendenze e cambiamenti di un mondo in evoluzione

Le grandi città, e più in generale l’ambiente urbano, secondo quanto riportato da John P. Sullivan e Adam Elkus in un articolo edito sul “Small Wars Journal” [i], sono destinate a svolgere un ruolo sempre più predominante nella distribuzione e negli equilibri del potere globale. Osservando le statistiche della popolazione mondiale e quelle che sono le sue tendenze, risulterà facile capire cosa abbia spinto i due autori a formulare questa ipotesi.

Se da un lato la migrazione intrapresa dall’umanità verso le città ha avuto una spinta eccezionale già dalla seconda metà del secolo scorso, il sorpasso della popolazione urbana rispetto a quella rurale è stato un evento verificatosi da non più di un decennio 2 e, stando a varie fonti, sembra che questo trend di “urbanizzazione della popolazione mondiale” sia ancora ben lontano dall’esaurirsi. Questo, ovviamente, non potrà che avere pesanti e profonde implicazioni per i futuri asseti strategici sia a livello regionale che mondiale.

A supportare quanto detto concorrono i dati riportati dalla Joint Pubblication 3-06 [ii] e dalla The Joint Operating Enviroment [iii]: stando alle loro stime, si prevede che entro il 2030 l’intera popolazione globale arriverà a contare circa 8 miliardi di individui. Se questa cifra pone già di per sé ansietà e paure, una riflessione ancora più preoccupante emerge se si pensa che questa crescita esponenziale, calcolata in circa 60 milioni di nuovi individui l’anno, avrà in larghissima misura luogo in contesti già altamente degradati o a rischio. Facendo ancora appoggio alle previsioni delle due pubblicazioni, si calcola che entro un arco temporale di dieci-quindici anni, quasi metà della futura popolazione mondiale – le stime parlano di numeri compresi fra i 2,5 e 3 miliardi di persone – risiederanno nelle grandi baraccopoli del Medio Oriente, dell’Africa o dell’Asia. Si pensi per esempio all’incredibile boom demografico che si è avuto – e che continua tuttora – in vari paesi in via di sviluppo, in alcuni paesi del BRICS o in alcune aree dell’Africa, come per esempio la Nigeria. Tutti, o quasi, paesi impreparati ad accogliere e sostenere una tale crescita demografica e la derivante spinta all’urbanizzazione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Queste città globali, di cui sarà trattato a breve, costituiranno luoghi di immensa complessità e confusione, tanto fisica che culturale: milioni e milioni di persone appartenenti a culture, fedi ed etnie differenti si troveranno a convivere a stretto contatto l’un l’altra in contesti abitativi di indigenza pressoché assoluta.

Servizi ed infrastrutture inefficaci, scarsità di igiene e cibo ed una popolazione composta in massima parte di giovani o giovanissimi, scontenti delle loro condizioni di vita, rappresenteranno una fonte di tensioni e disagi con cui prima o poi, molto verosimilmente, saremo chiamati a fare i conti.

Parallelamente alle tendenze appena descritte si è sviluppata, a partire da anni recenti, una fiorente letteratura circa le così dette mega cities o glabal cities [iv]. Gli studi sull’argomento sono incentrati nel descrivere come questi immensi agglomerati urbani andranno ad influenzare, grazie alle loro sempre più profonde connessioni, gli equilibri mondiali derivanti dalle loro attività e dalla loro stabilità. Uno studio più che mai opportuno se si pensa che entro il 2025 le mega cities saranno circa 37 [v]. Tutto ciò non potrà che avere pesanti ripercussioni sulla vita di milioni o miliardi di persone: alle grandi cities seguiranno e faranno da cornice le mega slums che dovranno essere trattate come l’altra faccia della medesima medaglia e non come una “lawless zone” distinta ed a sé stante.

Le implicazioni politiche di questo fenomeno saranno macroscopiche ed in buona parte già lo sono; come asserito da Parag Khanna “The 21st Century will not be dominated by America or China, Brazil or India, but by the city. Cities rather than states are becoming the islands of governance on which the future world order will be built (…) This new world is not – and will not be one global village, so much as a network of different ones” [vi].

Urbanizzazione e favellizazione delle città sono destinati a diventare termini indissolubili, ecco perché l’ambiente degradato che circonda le grandi cities diventerà un nodo cruciale delle megalopoli del futuro. Sarà delle slums, dalle favelas o dalle desokotas che con ogni probabilità passeranno gli equilibri ultimi delle megalopoli del futuro, equilibri metaforici ma anche e soprattutto fisici, tangibili: cosa potrebbe succedere se in città di 5,10,15 milioni di abitanti scoppiassero cicliche e violente manifestazioni? Come si potrebbe arginare un tale numero di persone e come si potrebbe venire incontro a quelle che sono le loro richieste ed i loro problemi? Come, infine, si potrebbe reagire tramite la forza ad una protesta trasformatasi in rivolta che coinvolge milioni di disperati, magari fomentati ora dall’una ora dall’altra messianica figura promettente loro una vita migliore una volta rovesciato lo status quo?

Pensare al collasso di una città o peggio al collasso di un sistema di tali città – e pertanto alle tremende conseguenze per lo stato di appartenenza – pone sicuramente il lettore davanti ad un inquietante ed al contempo affascinante scenario post-apocalittico che, almeno per il momento, non è così vicino a realizzarsi.

Ciò che invece è certo, assodato e sperimentato direttamente sul campo è che nell’ambito del warfare sia ormai l’ambiente urbano l’elemento preponderante. Immaginare una pianura affollata da due eserciti, l’uno di fronte all’altro, in attesa del “Fuoco!”, sembra quasi un anacronismo da immortalare su una pellicola cinematografica, una concezione di guerra ormai sorpassata. Sotto molti aspetti non si può che essere concordi. L’urban warfare, cui sarà dedicato ampio spazio nei capitoli a seguire, è un tipo di guerra lento, logorante, dalla difficilissima gestione logistica e dagli esisti imprevedibili, che ben più di una volta ha colto impreparati i modernissimi eserciti occidentali. Non solo da un punto di vista militare, certamente fondamentale, ma anche, e forse soprattutto, da un punto di vista gestionale. Le città sono ambienti critici non solo per la cospicua presenza e concentrazione di propri nemici, lo sono soprattutto per la presenza di individui – ed è la maggior parte della popolazione – che nemici non sono: una moltitudine infinita di civili inerti che spesso si trova coinvolta fra i due fuochi. Come facilmente intuibile, in un ambiente estremamente popoloso e con un forte densità abitativa il rischio di danni collaterali, durante lo svolgimento delle operazioni militari, è elevatissimo. Un primo step verso una più adeguata conoscenza di questo ambiente, e pertanto verso una più esaustiva preparazione, è quello di smettere di pensare alle città come a null’altro che ad un insieme più o meno esteso di edifici. Le città devono essere viste nella loro interezza e complessità, gli edifici che la compongono altro non sono che il rivestimento che ne contiene il cuore pulsante.

Come suggerisce David Kilculen in un suo elaborato [vii], le città devo essere trattate come organismi viventi – “metabolic flows” – e come tali analizzate: capirne i rimi, la storia, le abitudini e certamente anche le contraddizioni risulterà alla lunga una strategia proficua, auspicabilmente capace di prevenire il maggior numero possibile di collateral damages. Saranno solo i futuri sviluppi a darci se ciò risulterà vero o se invece impareremo ad accettare come “inevitabile” l’alta soglia di mortalità dei non combattenti in un contesto urbano. Per il momento l’unica certezza è “l’impossibilità, per le armate occidentali, di prendere una città con il solo uso della forza: una strada certamente non più percorribile” [viii].

 

2. Urban warfare: città e popolazione, i grandi protagonisti

 Prima di entrare nel vivo della questione e passare ad approfondirne anche gli aspetti più tecnici, è opportuno cercare di dare una definizione, anche essenziale, di cosa rappresenti e di cosa sia una città da un punto di vista militare. Fra le molte definizioni espresse dagli studi in materia [ix], una particolarmente efficace viene fornita da un elaborato prodotto dalla Swedish Defence University: “Cities can be regarded as special terrain. It has the same multidimensional battlespace that mountainous terrain has as well as the restrictions on movement and maneuver jungle terrain has and it has similar logistical requirements as operations in desert terrain. But it is unique in that it is a human environment, a complex manmade terrain superimposed on existing natural terrain. The presence of humans, of noncombatants, is frequently high-lighted as the defining feature of urban environments. Urban operations are special because their environment explicitly shapes them” 11. L’estratto riportato evidenzia ed introduce in maniera valida, quanto sintetica, tutte le implicazioni e le conseguenze derivanti da questo tipo di combattimento. Trovarsi catapultati nel mezzo di una guerriglia urbana, impegnati in spettacolari scontri a fuoco e riuscire a portare a casa la pelle grazie al tempestivo arrivo della “cavalleria” è materia buona per le distribuzioni block-buster destinate al grande pubblico; niente di più lontano dalla realtà dei fatti. Il combattimento in città, almeno nella prime fasi, è un lavoro lungo e complesso; richiede uno sforzo organizzativo e logistico immenso ed esige di essere sostenuto da un’adeguata preparazione. Dare l’assalto in maniera frontale, spianarsi la strada grazie all’intervento dell’artiglieria o dell’aviazione senza aver prima pensato a come dislocare i non combattenti, a come evitare di danneggiare il maggior numero possibile di infrastrutture e servizi, sarebbe una catastrofe. Una crisi umanitaria pressoché inevitabile. Oltre alle difficoltà belliche propriamente dette, delle quali sarà trattato successivamente, le grandi complessità del combattimento urbano derivano proprio dall’enorme presenza di civili. Si potrebbe pensare, e forse senza un’adeguata riflessione risulterebbe persino di facile attuazione, ad una ricollocazione più o meno forzosa della popolazione. Questo, specie nel caso di un esercito regolare, creerebbe un serie di evidenti vantaggi per la forza attaccante, quali un terreno di battaglia meno complesso, occupato solo da effettivi combattenti ed un più facile ricorso ad armi dall’alto potenziale offensivo. Sembrerebbe dunque che la chiave di volta per risolvere la maggior parte dei problemi sia stata agilmente trovata. Ovviamente l’intero processo di ricollocamento della popolazione è tutt’altro che di facile attuazione e pone in essere una serie macroscopica di problematiche: dove ricollocare la popolazione? Con quali mezzi farlo? Vi sono strutture adeguate ad accogliere centinaia di migliaia di sfollati? Gli occupanti della città lasceranno andar via così facilmente la popolazione – preziosa risorsa quand’anche merce di scambio – o preferiranno mantenere una città il più densamente popolata possibile così da scoraggiare gli avversari dall’uso di offensive su larga scala?

Se le altre domande lasciano spazio ad interrogativi sui quali è quantomeno possibile dibattere, l’ultimo quesito risulta essere auto-evidente.

Solitamente infatti, per non dire sempre, le forze arroccate in città tendono a coinvolgere la popolazione civile nelle proprie operazioni; specialmente nell’epoca corrente, in cui la stragrande maggioranza degli “assediati” è ascrivibile alla voce di irregolari, insorti, ribelli et similia. L’immenso iter dello sfollamento e ricollocamento diviene così appannaggio esclusivo dell’assediante, il quale, nel cercare di tener fede a tutta una serie di obblighi derivanti dal diritto internazionale [x], corre il concreto rischio che un numero crescente di oppositori trovi rifugio fra le chilometriche colonne di profughi.

Questo non deve sorprendere: il combattere in maniera asimmetrica non fa riferimento alla sola imparità o sproporzione degli armamenti usati dall’una o dall’altra parte, combattere una guerra asimmetrica implica anche l’adozione di tutta una serie di strategie e sotterfugi volti a minimizzare la potenza di un avversario sulla carta molto più forte. Dato che questo tipo di conflitti ha luogo in ambienti altamente degradati ed in contesti sociali disgregati, subentrati dopo il collasso dello stato [xi], risulta sempre più difficile operare un’efficiente cernita fra truppe regolari, civili, bande di irregolari o insorti. A chi combatte senza una divisa, senza simboli di appartenenza ma in abiti civili di uso quotidiano è consentita l’adozione di una serie di stratagemmi come quello poc’anzi menzionato. Inoltre, gli assediati, scevri dagli obblighi derivanti dal diritto internazionale, preferiranno utilizzare la componente civile come parte integrante della propria strategia: rendendola cioè esposta ad eventuali danni collaterali, collocando obiettivi di forte interesse strategico in contesti abitativi di grande importanza quali scuole, ospedali, complessi residenziali [xii]. Ovviamente, ed è qui che si configura il peggior scenario possibile, esiste anche l’eventualità che sia la popolazione stessa, senza subire pressioni, a rendersi palesemente ostile alle forze assedianti, dando così vita ad una spirale di violenza difficilmente pacificabile e sottoponendo ad ulteriori complicazioni tutte le operazioni in fase di post-conflict e recovery della forza occupante.

Alla luce di ciò, prima di entrare o anche solo avvicinarsi ad una città è bene tenere a mente alcuni precetti tanto basilari quanto essenziali per la miglior riuscita possibile dell’intera operazione. Rifacendosi ancora una volta al concetto di “metabolic flows”, il suggerimento che ci viene offerto è quello di pensare alle città come ad organismi viventi. Nell’articolo “A better approach to urban operations: treat cities like human bodies” [xiii], viene sottolineata la necessità di approcciarsi all’ambiente urbano con sguardo clinico, proprio come farebbe un dottore con un paziente. La metafora, per fantasiosa che possa sembrare, risulta utile per comprendere che le città, parimenti al corpo umano, necessitino di organismi vitali per poter funzionare e vivere; come si compongano di organi centrali – il nucleo dell’agglomerato urbano – e di organi periferici – zone residenziali, industriali, periferiche – entrambe indispensabili per la sua esistenza. Nell’articolo di cui sopra, si evidenzia come una visione simile dell’ambiente in cui si agisce sia risultata per anni completamente estranea al modus operandi di gran parte degli eserciti occidentali, i quali, prediligendo spesso un approccio assai più pragmatico, sono andati incontro a fallimenti di varia natura, tanto tattici quanto strategici. Il problema principale, lamentano gli autori, è che “we don’t understand cities nearly as well as we could and have demonstrated that we know even less about how to optimize military actions in them”. In ultima analisi, come sarà approfondito nella parte conclusiva dell’elaborato, un’adeguata dottrina, capace di considerare le città come qualcosa di unico, risulta essere la grande assente: una dottrina in grado di formare dei veri e propri specialisti del settore, abili, quam celerrime, di colmare le lacune oggi presenti.

 

2.1. Combattere in città: aspetti e caratteristiche dell’urban warfare

 Dopo aver offerto un quadro generale delle tendenze della popolazione mondiale, di quali possano essere le implicazioni di un conflitto in contesti urbani e perché la loro importanza è destinata ad aumentare esponenzialmente in un futuro prossimo, questa sezione si prefigge lo scopo di scavare più a fondo, di offrire cioè non più una generale panoramica del fenomeno, ma di illustrare quelli che sono gli aspetti concreti e tangibili dell’urban warfare, le sue caratteristiche  e le sue peculiarità; provare quindi a far immedesimare il lettore nei panni di chi si trova a combattere in contesti urbani altamente popolosi ed affollati, catapultarlo, in medias res, nel mezzo di un’azione militare nelle grandi baraccopoli di un city di milioni di abitanti o nel dedalo inestricabile di una grande città mediorientale.

Per fare questo, dobbiamo, prima di tutto, capire che le tattiche di combattimento e le operazioni in seno ad un contesto urbano sono profondamente diverse da qualunque altro tipo di operazione: il comando ed il controllo (C2 functions)  devono diventare funzioni frammentate ed adattative, reparti sempre più specializzati e formati da pochi, addestratissimi uomini sono da prediligere rispetto a grandi reparti armati, tattiche di guerra nuove o non convenzionali – con particolare riferimento alle funzioni di C4ISTAR O C5I [xiv] o all’utilizzo degli ultimi ritrovati tecnologici quali le modernissime forme dei vari UAV [xv] – stanno diventando le chiavi di volta per il predominio militare. Il trend odierno risulta essere quello di eserciti sempre più tecnologici, specializzati e piccoli, mentre le città stanno diventando sempre più grandi e caotiche.

La tecnologia offre un concreto aiuto nella padronanza delle varie situazioni che si possono verificare in un ambiente urbano, dalle semplici funzioni di pattugliamento fino ai veri e propri scontri a fuoco, passando quindi dal controllo del terreno e delle zone a questo limitrofe. Il poter usufruire di informazioni trasmesse in tempo reale, con un margine di errore sempre più basso, riduce in maniera sensibile la possibilità di perdite in termine di vite umane. Questo è in buona parte dovuto ai vari dispositivi a controllo remoto – siano essi aerei, terrestri o anfibi – che vanno a costituire una valida alternativa, se non addirittura un’effettiva sostituzione, all’impiego estensivo di truppe appiedate con tutti i rischi e le complicazioni che ne deriverebbero: se da un lato basterebbe pensare, come postulato fin dai tempi di Sun Tsu, che le città “inghiottono” gli eserciti, dall’altro sarà sufficiente immaginare cosa significherebbe pattugliare una città di vari milioni di abitanti con i soli occhi umani. La tecnologia appare così indispensabile.

Questo non deve però trarre in inganno: l’esclusivo, o quantomeno il predominante, affidamento alla propria superiorità tecnologica può rivelarsi una strategia rischiosa e controproducente; causa una serie di caratteristiche peculiari dell’ambiente urbano. Questo contesto, come tutti i terreni complessi, è infatti in grado di riequilibrare le forze e portare vantaggi ai combattenti irregolari, ponendo quindi problemi operativi all’esercito regolare. L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 è istruttiva in tal senso; battaglie come Nassirya, Samawah e Najaf hanno costituito una vera e propria scuola di guerra per le operazioni militari odierne, tanto che il “Learning Counterinsurgency: Observations from Soldiering in Iraq” [xvi] ne costituisce ancora oggi uno dei testi maggiormente seguiti ed apprezzati. Lo spazio urbano, per un esercito regolare, rappresenta una serie di minacce che portano ad operare in contesti estremamente rischiosi. Case, edifici e dedali inestricabili di vie riducono sensibilmente i vantaggi derivati da una maggior disponibilità tecnologica e organizzativa, limitandone di conseguenza la capacità di offesa e difesa. A tutti questi elementi, deve essere poi aggiunta la costante presenza di civili; la quale, non solo costringe a regole di ingaggio più severe al fine di evitare “effetti collaterali”19 in vista di un eventuale scontro, ma permette anche agli irregolari di impiegare in modo più efficace le loro tattiche. Visto che essi non vestono uniformi – e pertanto non risultano quasi mai distinguibili [xvii] dal resto della popolazione – mimetizzarsi in città di milioni di abitanti non risulta un compito particolarmente arduo. La struttura caotica e confusionaria, propria dei grandi centri abitati, costituisce il terreno d’azione perfetto per cecchini e VBIED [xviii], che assicurano a chi attacca una pluralità di obiettivi tra cui scegliere, siano questi civili, militari, o di qualunque altra natura. I militanti di IS, per esempio, nel condurre questo tipo di guerra, sembrano essere ispirati da una delle più fortunate pubblicazioni all’interno della galassia jihadista, tale “A Practical Course for Guerrilla War” [xix], un testo, originariamente edito in arabo, che rappresenta ancora oggi una sorta di vademecum del guerrigliero urbano. Davanti a questa e ad altre sfide connesse, gli eserciti moderni hanno avvertito l’incalzante bisogno di rivedere le proprie tattiche ed il proprio modus operandi. Oggi, un ingente dispiegamento di mezzi e di uomini sembra essere un’idea superata e, conseguentemente, le teorie ad esso collegate.

Le più recenti invitano a non considerare le città come un unico insieme, ma piuttosto a sezionarle e dividerle in varie realtà, una sorta di matrioska urbana. Ogni agglomerato urbano può essere generalmente diviso in tre grandi macro-sezioni [xx]:

  • Il centro storico della città, il cuore pulsante, fatto di vecchi edifici, dove la visibilità è fortemente limitata e la popolazione è maggiormente concentrata.
  • I sobborghi, ovvero un insieme eterogeneo di negozi, complessi residenziali, scuole ed altri servizi.
  • La periferia, i margini estremi dei grandi agglomerati urbani, dove è generalmente possibile trovare siti di rilevanza strategica per il funzionamento dell’intero ecosistema cittadino quali ospedali, centri industriali, aeroporti, etc…

Questa classificazione risulterà utile a qualunque decision maker militare. Studiare approfonditamente la geografia di una città permettere di capire come muoversi in un ambiente che presenta caratteristiche completamente diverse rispetto all’altro, quali saranno le manovre giuste da adottare e quale tipo di armamenti o strategie usare.

La dottrina americana relativa alle MOUT [xxi],  una volta operata questa classificazione, si articola in quattro fasi, l’una conseguenziale all’altra. In un primo momento si procede alla mappatura del teatro dell’imminente operazione ed all’individuazione del nemico. Il secondo step prevede di isolare il più rapidamente possibile le zone interessate. Porre un cordone intorno ad una determinata area, se non intorno all’intera città, permette sia di evitare che rinforzi nemici giungano dall’esterno sia che i difensori riescano a trovare agili vie di fuga. Il prossimo passo sarà quello proprio dell’inizio delle ostilità: un attacco combinato, in profondità, sarà teso a sfondare la prime resistenze, costruire una testa di ponte per le future operazioni e far sì che la popolazione civile abbia la possibilità, attraverso corridoi umanitari, di abbandonare il luogo del conflitto. Infine, quarto ed ultimo step, gli assedianti intraprenderanno la parte più difficile dell’intera operazione, ovvero il combattimento casa per casa, strada per strada proprio nel centro della città. In questa fase, ancora più che nelle altre, risulterà indispensabile una cooperazione civile e militare [xxii] il più affiatata possibile, volta ad agevolare tutte le operazioni di recovery che seguiranno la fine del conflitto. Ma questo non rappresenta che la fine di un lungo e travagliato percorso.

La situazione di partenza, di solito, è infatti di forte svantaggio per chi si appresta ad entrare in città: il dover difendere una serie di obiettivi politici sensibili, piuttosto che infrastrutture critiche o luoghi di forte interesse simbolico, offre agli irregolari un’ampia gamma di target cui mirare. Un problema di non poco conto, se si tiene presente sia la necessità di non disperdere in maniera eccessiva le proprie forze, evitando quindi lo stillicidio dei propri effettivi, sia quella di rendere comunque efficace la difesa e la propria presenza sul territorio.

Tutto questo senza considerare che, fra le innumerevoli variabili presenti in questo ambiente, un solo fatto rimane certo: l’impossibilità di sapere con esattezza quando e dove il nemico colpirà. Infatti, quasi certamente, i nemici saranno pronti ed organizzati ben prima delle truppe assedianti; una conoscenza approfondita del territorio e delle sue caratteristiche costituisce senza dubbio un vantaggio tattico fondamentale. Inoltre, data la dimensione della città, saranno pronti ad ingaggiare scontri a fuoco in qualunque momento, a mantenere l’iniziativa, a scegliere il campo di battaglia di volta in volta più opportuno e a dileguarsi nel nulla. La configurazione fisica dello stesso terreno urbano favorisce, infatti, in chi si difende, l’adozione di tattiche decentralizzate nello svolgimento del combattimento. Un modus operandi che ha fatto sorgere un ampio ciclo di studi inerenti allo swarming warfare 26.

Continuare a cercare nella sola tecnologia il vero discrimine fra vittoria o sconfitta sarebbe un errore fatale. Si ricordi a tal proposito che “while assuming the capability of airpower that can go virtually anywhere and destroy anything that can be seen with precision-guided munitions […] static, defensively situated forces are relatively immune to air attack for a number of reasons. One reason is they place lower demands on logistics, and communications and control systems. Because they consume fewer supplies, they suffer less from a communications loss, particularly if they had the opportunity to accumulate supplies in theater beforehand” 27.

I manufatti strutturali presentano infatti la peculiarità di limitare fortemente l’efficacia di molti ritrovati tecnologici, di vari sistemi d’arma e di gran parte degli strumenti relativi alle già citate funzione C4ISTAR e affini. Non a caso, strumenti come sensori elettro-ottici, radar e GPS sono in larga parte progettati per sviluppare la massima efficienza in ambienti liberi da impedimenti visivi e strutturali. Ultima, ma non meno importante osservazione: oltre alle dimensioni classiche, tipiche di molti teatri di conflitto – vale a dire quella orizzontale e quella verticale – in quello urbano se ne aggiunge anche un’altra, quella sotterranea [xxiii]. Molte città infatti si sviluppano anche in senso ipogeo, costituendo, alle volte, dei veri e propri formicai. Spesso e volentieri, le mappe in dotazione alle truppe assedianti difettano nella rappresentazione sotterranea della città e questo complica notevolmente il lavoro. E’ attraverso quest’insieme di dimensioni che per gli assediati risulta possibile muoversi in maniera discreta e relativamente sicura, divenendo capaci di giungere anche al ridosso del nemico e coglierlo di sorpresa. Alla luce di questo, risulterà facile comprendere come una forza di difesa ben organizzata, seppur dotata di armamenti non certo sofisticatissimi, possa risultare estremamente tenace da sconfiggere. Trappole e congegni esplosivi “home-made”, posizioni coperte e defilate, rapidi raid ed incursioni improvvise sono solo alcuni dei mezzi utilizzati dai difensori e molti, molti altri, rientrano nella loro gamma di scelte.

Dovendo trarre una conclusione, si converrà che in ambienti simili lo strumento umano è ancora di gran lunga il preferibile, per quanto perfettibile. Di questa e di altre tematiche ad essa afferenti, sarà trattato nel seguente capitolo.

 

2.2. Special Operation Forces: un ruolo da protagonisti

Quando si parla di Special Operation Forces (SOF) ed intelligence è impossibile, almeno nella storia recente, non riconoscere un ruolo di prim’ordine all’apparato militare statunitense.  Una storia di successi certamente, ma costellata anche da tanti fallimenti ed errori macroscopici. Per meglio comprendere i passi falsi fatti fin ad ora e capire le attuali tendenze circa l’evoluzione del warfare, un buon punto di partenza ci è offerto dall’articolo “The american way of warfare: Cultural Barriers to successful counterinsurgency” 29, edito dall’analista Jeffrey Record.

Tenendo ben a mente le caratteristiche dei conflitti odierni, le varie teorie che provano a tracciarne la fenomenologia – si fa quindi riferimento al ciclo di studi inerenti ai Low Intesity Conflict (LIC), alla Hybrid warfare o alle War’s Generations 30 – e soprattutto le grandi difficoltà che l’esercito statunitense ha incontrato nell’approcciarvisi, l’autore rintraccia questi ed altri problemi in una serie di “cultural bias” propri della storia e della società americana. Il più importante, citando testualmente l’autore, è la preferenza “for a strong and long-standing predilection for waging war for far-reaching objectives. Americans have been uncomfortable with wars fought for limited political aims. (…) The U.S. military has throughout its history sought to close with and destroy the enemy at the earliest opportunity”. Come facilmente intuibile, questa tendenza si è tradotta in una tangibilissima preferenza ad un ricorso intensivo del proprio potere di fuoco e ad una sempre più forte dipendenza tecnologica.

Caratteristiche riscontrate anche dallo stratega britannico Colin S.Gray, il quale, nel tracciare il quadro dell’”American way of war”, aggiunge che gli Americani hanno dato più volte prova di essere “astrategic, culturally ignorant, large-scale oriented, profoundly regular and sensitive to casualities” 31. Un insieme di attitudini che mal si coniuga con le esigenze della guerra moderna.  E’ proprio dalle fallimentari esperienze e dalle lessons learned che, tuttavia, il modo di combattere occidentale/americano si è trasformato – processo tutt’ora in atto – ed adattato negli ultimi anni.

Il topic di questo capitolo, relativo alle SOF ed all’intelligence, avrà come incipit proprio l’ultima caratteristica elencata da Colin S. Gray, ovvero la sensitivity to casualities tipica del mondo occidentale. In un’epoca da molti definita post’eroica, fatta di progresso ed agio, il problema centrale, spesso e volentieri, non è tanto come combattere una guerra, quanto se combatterla o meno, se sia giusto o no [xxiv]. Un impiego su larga scala – spesso infruttuoso ed inevitabilmente foriero di molte perdite umane – è sovente mal visto dalla popolazione. Per i decision maker militari, questo è un fattore importante tanto quanto le esigenze di innovazione ed adattamento richieste dai nuovi scenari di battaglia, che sempre più spesso hanno luogo in contesti urbani. Si assiste di conseguenza ad un impiego sempre più diffuso di piccoli nuclei operativi (task force) composti da soldati altamente specializzati e dotati dei migliori armamenti di cui l’industria bellica dispone. Le SOF – Special Operation Forces – costituiscono ormai la chiave di volta con cui le potenze occidentali (una menzione d’onore spetta anche alla Federazione Russa) tentano di risolvere i problemi bellici contemporanei. Gli analisti sottolineano la sempre più marcata tendenza ad un loro impiego estensivo, anche per assolvere incarichi normalmente svolti da truppe ordinarie, a partire dall’acclamato “Afghan Model” del 2003. Oggi, infatti, i reparti speciali non sono esclusivamente competenti in azioni belliche ad alto rischio [xxv], ma il loro intervento è richiesto tanto in lavori di intelligence (raccolta informazioni sensibili) quanto in compiti di addestramento e preparazione di truppe autoctone. In un’epoca che ha assistito ad una sensibile riduzione nella spesa per la difesa – sebbene dal 2014 si registri un’inversione di tendenza 34 – il loro crescente impiego è dovuto a due precise esigenze: economia delle forze e aumento delle possibilità strategiche. In questa categoria vanno sicuramente menzionate le missioni di “Targeting Leader” e “Man Hunting” [xxvi], veri e propri raid finalizzati all’eliminazione non solo dei comandanti nemici, ma della loro intera catena di comando, logistica e finanziaria.

Quali sono dunque i vantaggi derivanti dalle tattiche e da un utilizzo sempre più intensivo delle SOF, specialmente in contesti urbani? Prima di tutto, iniziando dalla parte “non violenta” delle operazioni militari, le SOF sembrano presentare minor carenze culturali delle truppe standard. Chi approda nei reparti speciali ha, di norma, pregresse esperienze con stati stranieri ed operazioni fuori teatro inerenti a Foreign Internal Defence and Counterinsurgency [xxvii]: fattori che  aiutano a costruire una percezione più aperta, e di riflesso più elastica, dei vari ambienti in cui si è chiamati ad operare. Inoltre, grazie ad un addestramento comprensivo di nozioni linguistiche, culturali e di team building risultano più idonee a collaborare con i loro corrispettivi stranieri nonché ad avere un miglior rapporto con la popolazione: il vero elemento chiave per la riuscita di peace keeping o peace enforcement operations. In questi casi è essenziale che la componente civile non percepisca le truppe straniere come invasori ma piuttosto come pacificatori.

Dal momento che la città è – e continuerà ad esserlo nel futuro – il loro teatro d’azione più ricorrente, è opportuno vedere dettagliatamente come le SOF operano. Tenendo ben presenti le caratteristiche del combattimento in ambienti urbani, le difficoltà ed i pericoli che ne derivano, i requisiti di operazione e di sopravvivenza richiedono una forte dispersione sul campo di battaglia, portando alla formazione di unità più piccole, più capaci e più autonome. Riferendosi ad uno scritto dell’ufficiale italiano Davide Scopece [xxviii], è importante capire come in contesti urbani ci si ritrovi spesso ad operare in situazioni sfumate, non ben definite. Questo richiede, specialmente per i comandanti dei livelli inferiori, una capacità di iniziativa e di reazione straordinaria, indispensabile per non rimanere invischiati in pericolosi schematismi e preconcetti. Una dettagliata strategia, comprensiva di obiettivi, linee guida e quant’altro, deve essere sviluppata ai vertici della catena di comando; ai livelli inferiori, quelli operativi, occorre invece lasciare ampia discrezionalità ed autonomia. Programmare nei minimi particolari un’azione in questi ambienti potrebbe risultare controproducente: dato l’alto tasso di aleatorietà che una grande città impone, molto difficilmente tutto andrà come programmato. Questo non significa – come sottolineato da Lorenzo Striuli [xxix] – che le forze occidentali si debbano muovere in un’ottica di swarming warfare, o adottare a loro volta tattiche proprie della guerriglia; ma piuttosto adottare un’adeguata struttura di controllo e comando, che operi secondo il principio “pianificazione centrale – esecuzione decentralizzata”. In un conflitto urbano, dunque, l’adozione di un’ottica task-oriented è la strada da seguire.

 

2.3. Caso di Studio: la battaglia di Mosul

 Per offrire al lettore un esempio pratico delle caratteristiche dell’urban warfare fino ad ora elencate, sarà di seguito analizzata la battaglia per la liberazione di Mosul. L’analisi, che si baserà principalmente su tre articoli, editi rispettivamente da CTC Sentinell, da Center for Security Studies e dal The Washington Post 39, avrà lo scopo di fornire un quadro esaustivo di quelli che sono stati i tratti distintivi di una delle più gradi battaglie degli ultimi anni, cercando, al tempo stesso, di semplificare il linguaggio tecnico per una divulgazione il più aperta possibile.

Molti analisti hanno notato che IS, durante questa battaglia, ha adottato tattiche differenti rispetto ai combattimenti avvenuti in città come Ramadi o Hawija. Questo perché Mosul, città da 2,5 milioni di abitanti, ha posto tutti i problemi derivanti dalla difesa di una città estremamente popolosa, estesa per vari chilometri e con un’area metropolitana vastissima; quasi otto volte quella di Falluja.

Inoltre, a differenza delle altre città, in cui la stragrande maggioranza della popolazione era stata evacuata prima dell’inizio delle ostilità, questa operazione è risultata impossibile a Mosul, dove circa 600-700.000 mila persone sono rimaste intrappolate dentro la città vecchia, sulla sponda ovest del fiume Tigri. A tutto ciò va aggiunto che i miliziani di IS hanno dovuto affrontare anche un’altra difficoltà, precedentemente sconosciuta: l’esiguità del numero di combattenti; troppo pochi per poter difendere efficacemente un territorio così esteso. E’ questo mix di fattori che ha reso necessaria un’evoluzione ed un adattamento delle tecniche di combattimento. Nelle precedenti operazioni, le forze dell’esercito iracheno avevano incontrato la maggior parte delle resistenze nei pressi delle periferie o nei sobborghi intorno alla città, impiegando anche diverse settimane, se non mesi, a ripulire le varie zone rurali o limitrofe all’agglomerato urbano, occupate a piegare la resistenza di vere e proprie roccaforti ben attrezzate e difese più che di sparute e mal equipaggiate sacche di resistenza.

A Mosul si è verificata un’evidente inversione di tendenza: il terreno circostante la città, oltre ad essere troppo esteso, presenta caratteristiche geografiche poco idonee ad una difesa ad oltranza delle periferie; vaste pianure senza ostacoli che intralcino il fuoco nemico e l’assenza di un cospicuo numero di villaggi che formino una “cintura” intorno all’agglomerato urbano – essenziali per guadagnare tempo e logorare le truppe avversarie – hanno spinto IS a concentrare il grosso delle proprie truppe all’interno della città. Ovviamente questo non ha significato un abbandono, senza colpo ferire, delle aree poste al limitare della città, ma piuttosto un cambio di strategia dettato da specifiche esigenze. In tal senso, l’uso di autobombe o VBIED è uno dei campi che ha visto alcuni dei maggiori cambiamenti a livello tattico. Data la loro in efficienza in ambienti aperti, il loro impiego si è trasformato da offensivo a quasi esclusivamente difensivo: una volta attirate le truppe irachene in determinate aree della città, questi congegni sono stati utilizzati come e vere proprie trappole che, in combinazione con un largo uso di cecchini, hanno prodotto effetti assai più devastanti rispetto al loro precedete impiego, ovvero quello di rudimentali arieti di sfondamento per creare panico fra le linee nemiche.

Liberare il cuore della città è stato quindi un compito lungo ed estenuante, che ha richiesto un elevato tasso di perdite, nonché uno sforzo logistico impressionante se si pensa che la roccaforte di IS in Iraq è stata completamente accerchiata ed isolata per evitare l’arrivo di rinforzi o la fuga dei militanti del sedicente Stato Islamico. Fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo finale sono state le Iraqi Special Operation Forces che, addestrate da corpi appositi di Seal e Green Berrets americani, hanno sostenuto la maggior parte dello sforzo bellico, dando ottima prova di sé. Le truppe regolari invece – causa le alte perdite subite già nelle prime fasi della battaglia vista la loro scarsa preparazione – sono state impiegate in compiti più che altro ausiliari, quali il pattugliamento della riva orientale del fiume, funzioni di recovery e azioni di fuoco di copertura. Il caso di Mosul e l’utilizzo delle SOF in maniera sempre più intensiva sembrerebbe, quindi, confermare il trend analizzato nel paragrafo precedente, ovvero un ruolo predominante di reparti d’elite nei confronti delle truppe ordinarie.

 

3. Apposita dottrina ed adeguato addestramento: i grandi assenti

 Negli ultimi anni, nonostante l’evidente superiorità militare, gli stati occidentali sono incorsi in una serie di sconfitte o di episodi quantomeno imbarazzanti, che riflettono un’inadeguata preparazione per le sfide che le nuove guerre ci chiamano ad affrontare.

Train as you fight, recita una massima della U.S. Army. Eppure, la sensazione più diffusa è che si sia ancora lontani dall’applicarla: a detta di molti è come se la dottrina occidentale si fosse fermata al tempo delle grandi guerre convenzionali contro altri stati. Una visione probabilmente obsoleta se si pensa che le minacce più consistenti sono oggi rappresentate da “failed o collapse states” o da attori non statali. I numerosi fallimenti verificatisi durante [xxx] la Campagna Irachena del 2003, basata in massima parte sullo strapotere dell’aviazione e sulla schiacciante superiorità della propria potenza di fuoco, hanno costituito il vero turning point per un ripensamento delle proprie teorie e dei propri errori.

Infatti, come sottolineato da Frederick W.Kagan, “The United States has been so successful in recent wars, but has encountered so much difficulty in securing its political aims after the shooting stopped (…) this lies partly in a ‘vision of war’ that sees the enemy as a target set and believes that when all or most targets have been hit, they will inevitably surrender and American goals will be achieved” [xxxi]. Una visione che pecca di miopia a quanto pare: come si devono comportare precisamente le truppe? Per quale tipo di ambiente di devono preparare e cosa è necessario fare una volta che il “cessate il fuoco” è stato raggiunto? Queste e molte altre domande, orfane di una risposta adeguata, necessitano dello sviluppo di teorie capaci di seguire il passo con i frenetici ritmi imposti da un mondo in continua trasformazione. Un compito certamente non facile.

Una buona dottrina deve essere precisa, minuziosa, ma al tempo stesso adattativa, capace di lasciarsi manipolare e trasformare a seconda delle esigenze richieste dal momento. La stragrande maggioranza delle teorie occidentali, tuttavia, continua ad essere espressa sotto forma di manuali, i c.d. field manuals, altamente tecnici e specifici, in particolar modo con riferimenti alla fanteria montata o ad elementi tipici delle grandi manovre militari [xxxii]. Purtroppo, testi specifici per il Close Quarter Combat (CQC) sono ancora minoritari e, almeno in alcuni casi [xxxiii], non proprio al passo con i tempi.

Se ad una valida teoria deve far seguito un valido addestramento, i problemi si moltiplicano.

L’addestramento specifico per l’ambiente urbano è un concetto relativamente recente, concepito a partire delle numerose crisi degli anni ’90 e riaffacciatosi con prepotenza dopo le travagliate vicende mediorientali. Addestramento all’ambiente urbano vuol dire compiere un lavoro a 360°, un impegno che spazi da specifiche esercitazioni pratiche fino a corsi basilari di lingue e culture straniere, passando per lavori di interscambio e cooperazione con reparti altamente specializzati quali il BOPE brasiliano e affini.

Infine, come sottolineato da John Spencer [xxxiv], uno dei più grossi limiti al conseguimento di un’efficace dottrina e di un altrettanto efficiente addestramento è la mancanza di campi d’addestramento realistici. I pochi campi esistenti, perlopiù accessibili ad alcuni reparti specializzati e preclusi al grosso dell’esercito, risultano essere deficitari sotto molti aspetti: per dimensione, complessità urbanistica, mancanza di civili, geografia circostante etc etc… Una serie di problemi, cui va a sommarsi la mancanza di una tradizione scolastica propria per l’urban warfare, che necessita di essere risolta al più presto.

Gli eserciti occidentali, oggi come domani, si troveranno sempre più coinvolti in contesti cittadini, in cui sarà necessario operare con un bagaglio tecnico e teorico di un livello nettamente superiore all’attuale, per far sì che errori come quello di Falluja del 2003 non si verifichino mai più [xxxv].

 

Conclusioni

La cultura strategica occidentale sembra quindi ostile a questo tipo di guerra sporca, cruenta e di cui spesso non vengono pienamente capiti i motivi.

Affrontarla con successo, minimizzandone pertanto i danni e gli effetti collaterali, significa avere un bagaglio di competenze che spaziano dalla conoscenza storica, culturale, geopolitica a quella tattica ed operativa, in un sincretismo di abilità ottenibile solo con ampi miglioramenti in termini di addestramento e dottrine. Ad oggi l’obiettivo è tutt’altro che vicino. I limiti culturali che spesso hanno impedito all’Occidente di formulare teorie valide ed efficienti emergono distintamente: il mancato parallelismo fra guerra e politica, il vedere nella prima una sospensione della seconda e non una sua estensione – cosa che sembra essersi verificata spesso negli ultimi anni – ha fatto sì che si sviluppasse una sorta di miopia generale su quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di lungo periodo di una campagna militare o ancor più di una guerra. L’occidente si è dimostrato più che competente nella parte dell’hard-power, palesando però, al tempo stesso, una quasi completa impreparazione per ciò che sarebbe seguito successivamente. Troppe volte si è confusa la vittoria di una battaglia con la vittoria di una guerra; i danni sono spesso stati di portata catastrofica.

Solo i conflitti del futuro potranno testare se passi in avanti sono stati compiuti oppure se tutto è rimasto immutato. Ma mentre è difficile far previsioni, i ben più affidabili trends demografici ci mettono in guardia su quella che sarà la configurazione urbana ed umana di un mondo dominato da enormi città e da altrettante enormi baraccopoli. Un ambiente instabile e per molti aspetti pericoloso, ad alto rischio di implosione.

Un rischio che non può coglierci impreparati.

 

Note:

[i] J.P. Sullivan e A. Elkus, “Command of the cities: Towards a Theory of Urban Strategy”, Small Wars Journal, September 26, 2011, http://smallwarsjournal.com/jrnl/art/command-of-the-cities-towards-a-theory-of-urban-strategy.

2 UN Department of Economic and Social Affairs, 2006, “World urbanization prospect. The 2005 revision”, Ottobre, New York, Nazioni Unite.

[ii] D.L. Goldfein, “Joint Urban Operations”, Joint Publication 3-06, November 20, 2013, http://www.nytimes.com/packages/pdf/international/021021dod_report.pdf.

[iii] J.N. Mattis , “The Joint Operation Envirment”, February 18, 2010, https://fas.org/man/eprint/joe2010.pdf.

[iv] Fra i più autorevoli studi in materia: S.Sassen, “ The Global City: New York, London, Tokyo”, Princeton University Press, August 27, 2001.

[v] Secondo le Nazioni Unite, una mega city è una città che presenta più di 10 milioni di abitanti.

[vi] P. Khannam “Beyond cities limits”, Foreign Policy, October, 2010, http://foreignpolicy.com/2010/08/06/beyond-citylimits/.

[vii] D. Kilculen, “Out of the Mountains”, Oxford University Press, October 1, 2013.

[viii] A. Vautravers, “Military operations in urban areas”, International Review of the Red Cross, file:///C:/Users/franc/Downloads/irrc-878-vautravers.pdf.

[ix] Per altre definizioni consultare: J.E. Rhodes, “MILITARY OPERATIONS ON URBANIZED TERRAIN (MOUT)”, Department of the Navy, Headquarters United States Marine Corps, Washington, DC, May 2, 2016.

11 V.Villner, “Fighting in the Streets: Testing Theory on Urban Warfighting”, Swedish Defence University, May 5, 2016, http://fhs-beta.diva-portal.org/smash/get/diva2:1110058/FULLTEXT01.pdf.

[x] Soprattutto inerenti allo Humanitarian Law.

[xi] O comunque prossimi alla failure.

[xii] Famosi i casi sia di Grozny sia di Falluja.

[xiii] J. Spencer and J. Amble “A BETTER APPROACH TO URBAN OPERATIONS: TREAT CITIES LIKE HUMAN BODIES”, Modern War Institute, September 13, 2017, https://mwi.usma.edu/better-approach-urban-operationstreat-cities-like-human-bodies/.

[xiv] C4ISTAR è l’acronimo anglofono usato per far riferimento alle funzioni militari di Command, Control, Communications, Computers (C4), Intelligence (I), Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance (STAR). C5I designa invece le funzioni di Command, Control, Communications, Computers, Combat systems (C5), Intelligence (I).

[xv] UAV: acronico inglese per Unmanned Aerial Vehicle, traducibile come veivolo a pilotaggio remoto. Il suo volo è controllato dal computer a bordo del velivolo, sotto il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo.

[xvi] Petraeus D.,“Learning Counterinsurgency: Observations from Soldiering in Iraq, Military Review, 2008.

19 È tristemente famoso l’episodio datato 2007 in cui un elicottero Apache dell’aviazione americana aprì il fuoco uccidendo 11 civili fra cui un reporter, scambiando il teleobiettivo per un lanciarazzi

[xvii] Ai sensi dell’art. 13 comune alle tre Convenzioni di Ginevra questo costituisce una violazione dello jus in bello. L’articolo prevede infatti che i combattenti legittimi siano sempre ben distinguibili e visibili. In caso di effrazione perdono ogni tutela e lo status di prigionieri di guerra, ma questo avviene solo davanti ad un “tribunale competente”, secondo quanto sancisce l’art. 5 della Terza Convenzione di Ginevra.

[xviii] Vehicle-borne improvised explosive device

[xix] N. Cigar, “A Practical Course for Guerrilla War”, Potomac Books, Lincoln, 2008  ed. or. Abdel Aziz alMuqrin. Del testo originale, dato il contesto in cui è stato scritto, non esiste un’edizione stampata per il grande pubblico.

[xx] A. Vautravers, “Military operations in urban areas”, International Review of the Red Cross, file:///C:/Users/franc/Downloads/irrc-878-vautravers.pdf.

[xxi] Military operations in urbanised areas.

[xxii] Ascrivibile alle funzioni di HUMIT: human intelligences.

[xxiii] I militanti di IS ne hanno fatto ampio ricorso.

[xxiv] Per approfondire se faccia riferimento a: A. La Fortezza, “Clausewitz e la Fourth Generation Warfare ai tempi dello Stato Islamico”, OPI (Osservatorio di Politica Internazionale), 29 Settembre 2016, http://www.bloglobal.net/2015/08/clausewitze-la-fourth-generation-warfare-ai-tempi-dello-stato-islamico.html.

[xxv] Precedentemente appannaggio esclusivo delle “Black Sof”, quali Delta Force o SEAL Team 6.

34 Istituto SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), Stoccolma.

[xxvi] “Operation Neptune Spear” la più famosa, che portò, il 2 maggio 2011, alla morte di Osama bin Laden.

[xxvii] R. Cheriscla “Special force as military observers in modern combat”, Modern Warfare Istitute, September 18, 2016, https://mwi.usma.edu/special-forces-military-observers-modern-combat/.

[xxviii] D. Scopece. “I combattimenti urbani nelle Crises Response Operations”, Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze, 2009-2010.

[xxix] L. Striuli, “Teoria e tecnica dell’urban warfare: validità ed evoluzione delle dottrine in relazione alle esigenze operative”, Centro Militare di Studi Strategici, 2011, https://officinafisica.noblogs.org/files/2012/02/02_RICERCA-STRIULI1.pdf

[xxx] E soprattutto dopo.

[xxxi] F.W. Kagan, “War and Aftermath”, Policy Review, August-September, 2003, http://users.clas.ufl.edu/zselden/Course%20Readings/FKagan.pdf.

[xxxii] L. Striuli, “Teoria e tecnica dell’urban warfare: validità ed evoluzione delle dottrine in relazione alle esigenze operative”, Centro Militare di Studi Strategici, 2011, https://officinafisica.noblogs.org/files/2012/02/02_RICERCA-STRIULI1.pdf.

[xxxiii] Lo strumento militare italiano, per la guerra urbana, si basa ancora su “Le operazioni nelle aree urbanizzate”, testo del 2001 edito dall’Ufficio Dottrina Addestramento e Regolamenti dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

[xxxiv] J. Spencer, “The army needs an urban warfare school and it needs it soon”, Modern Warfare Institute, April, 2017, https://mwi.usma.edu/army-needs-urban-warfare-school-needs-soon/.

[xxxv] A Falluja, il 28 e il 30 aprile 2003 i paracadutisti della 82a aviotrasportata si dimostrarono del tutto impreparati ad affrontare una situazione di guerriglia urbana, aprendo il fuoco indiscriminatamente sulla folla con il risultato di uccidere 13 civili e ferirne quasi un centinaio.

 

Bibliografia:

  • N. Cigar, “A Practical Course for Guerrilla War”, Potomac Books, Lincoln, 2008.
  • T. Hammes, “The sling and the stone:on war in the 21th century”, Londra, Zenit Press, 2006.
  • Hoffman, “Conflict in the 21st Century: the Rise of Hybrid Wars”, Arlingotn, Potomac Institute for Policy Studies, 2007.
  • D. Kilculen, “Counter insurgency”, Oxford University Press, USA, May 19, 2010.
  • D. Kilculen, “Out of the Mountains”, Oxford University Press, October 1, 2013.
  • D. Petraeus “Learning Counterinsurgency: Observations from Soldiering in Iraq, Military Review, 2008.
  • S.Sassen, “ The Global City: New York, London, Tokyo”, Princeton University Press, August 27,2001.
  • Van Creveld.,”The Transformation of War”,New York, The Free Press, 1991.
  • M. Weiss, “Isis: Inside the Army of Terror”, New York, New York Times Bestseller, 2015.

 

Sitografia

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