Il ruolo del Sudan nel processo di normalizzazione con Israele


LORENZO VILLANI | La rivoluzione del 2019 ha rappresentato un punto di discontinuità all’interno del processo di evoluzione sudanese e ha inaugurato una fase di rottura dal regime di Omar al-Bashir. L’incarcerazione di quest’ultimo, dovuta a motivi legati alla corruzione, segna il definitivo distacco da un regime dittatoriale sorto nel 1989 a seguito del colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Sadek al-Mahdi. In seguito agli anni di isolamento internazionale il Sudan inizia oggi ad affacciarsi sul panorama globale. Tuttavia il paese è privo di una visione complessiva che gli consenta di trovare un proprio spazio.

La fase insurrezionale che ha concluso il secondo decennio del 21° secolo non ha portato, come molti speravano, ad un radicale ribaltamento degli equilibri interni. Ciò che ha fatto seguito a tale processo di cambiamento è stato solamente un governo di transizione. Esso, almeno formalmente, è tenuto a guidare il Paese nel controverso percorso di democratizzazione, con compiti legati quasi esclusivamente all’amministrazione e al mantenimento delle condizioni atte ad evitare un peggioramento della situazione economica.

Eppure, alla luce dei molteplici aspetti controversi che affliggono il Sudan – quali il peggioramento della situazione economica e l’isolamento internazionale – l’esecutivo ha avviato una serie di misure vincolanti e finalizzate a restituire un nuovo volto al Paese e ad essere durature nel tempo.

A tale proposito, sono diversi gli elementi in materia di relazioni internazionali che necessitano di esser presi in considerazione per comprendere il percorso di cambiamento del paese arabo-africano. Questo percorso, seppur nelle sue contraddizioni, mostra elementi singolari.

Fra le molteplici componenti di tale mutamento, occorre menzionare quella relativa alla nuova politica internazionale inaugurata dal governo di transizione. Nello specifico, dopo decenni in cui il Sudan si è mostrato agli occhi degli interlocutori internazionali come uno degli Stati sostenitori del terrorismo, il Paese ha conquistato una prima normalizzazione in seguito all’accordo con gli Stati Uniti che sancisce la cancellazione dalla rispettiva black-list (nella quale si trovava dal 1993) in cambio del riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele. Tale avvenimento è stato descritto da Abdalla Hamdok – il capo di governo sudanese – come “un ritorno nella comunità internazionale”[i]. Elemento che acquista ancora più rilevanza se si considera che l’uscita da tale black-list consente la possibilità per il Sudan di accedere a prestiti internazionali. Tuttavia questa decisione non è avvenuta in maniera silenziosa ma, anzi, rappresenta la più grande discontinuità se considerata in rapporto alla storia del Paese.
Il coronamento di tale processo è rappresentato dalla visita ufficiale del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, a Khartoum, capitale del Sudan, nonché località di alto valore simbolico per i conflitti arabo-israeliani

Storicamente, infatti, il Sudan si è da sempre distinto per il suo ruolo di sostenitore della causa palestinese, orientandosi così nella direzione del muqata’a, ossia il boicottaggio degli accordi negoziali con Israele.

Non a caso fu proprio la capitale sudanese che, il 1° settembre 1967, ospitò il congresso fondatore del “fronte del rifiuto” a qualsiasi apertura nei confronti di Israele, nel tentativo di recuperare i territori persi nel corso della Guerra dei Sei Giorni[ii], sia in termini geografici sia diplomatici.

Tutto questo è utile per descrivere la portata assai ampia di tale cambiamento. Il processo di normalizzazione promosso con gli Accordi di Abramo sostenuto da Stati Uniti e Israele mira ad una stabilizzazione nei rapporti geopolitici con tutti quei Paesi che, fino a poco tempo fa, si distinguevano per la loro vicinanza alla causa araba. Tutto ciò non va osservato da un’ottica che guardi i soli rapporti locali dei singoli paesi, bensì secondo una prospettiva che prenda in esame i rapporti continentali e, più in generale, globali. A rappresentare una fonte di preoccupazione in tale situazione è la crescente rilevanza del ruolo della Cina nel continente africano: in tal senso il processo di normalizzazione e di riconoscimento dello Stato di Israele è funzionale al consolidamento degli Stati Uniti sul continente africano[iii].

L’accordo stipulato con Trump sembra rappresentare un momento di rottura dal regime islamico precedente. Tuttavia, al di là della componente governativa che si dichiara soddisfatta del lavoro svolto, sono numerosi i partiti e le forze politiche – alcune delle quali che hanno guidato l’insurrezione – a condannare la decisione assunta. Molti di questi, infatti, non si sono mai espressi sull’accordo o hanno addirittura condannato l’azione del governo di transizione, sostenendo che l’assunzione di una tale iniziativa non rientrava fra i compiti dell’esecutivo.

Il processo appena descritto non è da intendersi unicamente come atto simbolico.

Il Sudan, con la firma dell’Accordo di Abramo avvenuta il 15 settembre presso la Casa Bianca, inaugura una nuova fase di sviluppo che condurrà a rilevanti conseguenze sul piano internazionale quali, ad esempio, una ancora più netta polarizzazione degli equilibri politici nel continente. Non è difficile dedurre che lo scenario relativo agli equilibri geopolitici sia mutato rispetto a 20 anni fa, quando il mondo arabo si dichiarava unito nel sostegno della causa palestinese. L’impressione è quindi quella che la componente ideologica che si celava alle spalle del mondo arabo sia venuta meno, e che il vuoto da lei lasciato sia stato colmato da accordi internazionali di natura strumentale. Il sospetto è che il Paese africano, con una popolazione ridotta alla fame tanto da dichiarare lo “status di emergenza economica[iv], sia in un certo senso divenuto vittima dei diktat di Trump che ha barattato l’eliminazione dalla lista dei Paesi sostenitori del terrorismo – e il conseguente riconoscimento internazionale – con l’avvio del processo di normalizzazione.

Il Sudan non è il solo ad essere coinvolto in tale percorso, vi è anche il ruolo di ulteriori Paesi di spicco a rendere tale fenomeno ancora più rilevante quali, ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain L’avvicinamento di questi Paesi verso Israele è stato descritto da Salman El Herfi, ambasciatore della Palestina in Francia, come un atto mediante il quale questi ultimi hanno dimostrato di essere “più israeliani degli israeliani”[v].


Al netto dei fattori presi in considerazione, emerge con chiarezza l’incertezza del futuro cui va incontro il Sudan. Un futuro caratterizzato, da un lato, dalla necessità di individuare una propria collocazione geopolitica e, dall’altro, dalla precarietà che ancora oggi è intrinseca al tessuto sociale e politico del Paese. Il processo di transizione democratica necessita di essere portato al termine. Dunque, trattasi di sfide che determineranno in maniera strutturale gli equilibri interni ed esterni della nazione e che sapranno condurre quest’ultima fuori dalla situazione di instabilità che si è determinata dalla caduta del regime di Omar Al-Bashir.


[i] U.S. lifts Sudan’s designation as a state sponsor of terrorism, Max Bearak and Naba Mohieddin, The Washington Post, December 14, 2020 https://www.washingtonpost.com/world/africa/sudan-remove-state-terror-list/2020/12/14/7f119482-3d10-11eb-aad9-8959227280c4_story.html

[ii]   Idylle entre les pays du Golfe et Israël, Akram Belkaid, Le Monde Diplomatique, Dicembre 2020. https://www.monde-diplomatique.fr/2020/12/BELKAID/62564

[iii] Come cambiano gli equilibri nell’Africa della globalizzazione, Giuseppe Gagliano, Osservatorio Globalizzazione, 16 maggio 2019. http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/come-cambiano-gli-equilibri-nellafrica-della-globalizzazione/

[iv] Sudan declares an economic state of emergency, Morris Kiruga, The AfricaReport, 15 September 2020 https://www.theafricareport.com/41877/sudan-declares-an-economic-state-of-emergency/

[v] L’ambassedeur de Palestine tire à boulets rouges sur les Emirats, Armin Arefi, Le Point, 12 ottobre 2020.

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