L’idea di mondo musulmano: realtà o illusione geopolitica?

VANNI ROSINI | Nel giugno 2009, a pochi mesi dal suo insediamento, il Presidente degli Stati Uniti Barack H. Obama si rivolse al mondo musulmano da un podio allestito presso l’Università del Cairo. Nel corso del suo accorato discorso, egli tentò di definire una politica di dialogo e avvicinamento rispetto ai musulmani e all’Islam, presentato al singolare come ente di civiltà organico e coeso al proprio interno[i]. Quella alla quale si era richiamato il leader statunitense è una costellazione di significati, idee, convinzioni e pratiche politiche comunemente attribuite ad un mondo musulmano molto spesso percepito come monolitico e unitario. Tale unità si manifesterebbe non solo da un punto di vista culturale e religioso, ma anche in un’ottica più strettamente geopolitica e strategica. A tal proposito, il geografo francese Yves Lacoste parla di“rappresentazioni geopolitiche” e chiama in causa – oltre alle concrete rivalità e dinamiche politiche nei rapporti tra attori diversi – le idee geopolitiche individuali e collettive. Ciò a cui Lacoste fa riferimento sono i cosiddetti miti-motore (mythomoteurs), funzionali all’edificazione di spazi di senso e grandi narrazioni identitarie, sedimentatesi nel corso della storia nell’immaginario collettivo e nella prassi politica[ii].

L’idea di mondo musulmano, che si inserisce compiutamente entro le coordinate della retorica post-modernista dello “scontro di civiltà”, si è articolata seguendo fasi di sviluppo alterne e contraddittorie. Il concetto in questione iniziò a strutturarsi alla metà del XIX secolo e raggiunse la piena maturazione intorno alla decade compresa tra il 1870 e il 1880, come contraccolpo conseguente all’espansione dell’egemonia europea oltre i confini del Vecchio Continente. Il mondo musulmano è, quindi, un portato della globalizzazione imperiale e del contestuale processo di razzializzazione dell’islamicità, inteso sia come discorso europeo sull’inferiorità razziale dei musulmani in quanto tali sia come elaborazione di un’artefatta – e incompatibile – diversità musulmana vistosamente connotata da marcatori etnici e religiosi. I fedeli islamici erano inquadrati dagli europei quali sudditi inferiori – ai quali non accordare i medesimi diritti delle altre comunità – nel contesto dei grandi imperi coloniali. Ciò andò a costituirsi come base dell’affermazione di un preteso eccezionalismo musulmano nella forma di una omogenea tradizione religiosa universale e, soprattutto, di una forza politica internazionale[iii].

A sfruttare a proprio favore questo elemento furono alcuni intellettuali riformisti musulmani, primo fra tutti l’iraniano al-Afghānī, fautori della concezione di civilizzazione musulmana come richiamo all’unità intra-islamica. Obiettivo di tale progetto era accrescere l’influenza della suddetta convergenza di interessi, e confutare fermamente le tesi coloniali di arretratezza e propensione alla ribellione riferite alle componenti di fede islamica. Questa grande illusione geopolitica non era rispondente alla realtà fattuale dei rapporti tra entità politiche a maggioranza musulmana, dominati da interessi nazionali e particolaristici a discapito di una reale solidarietà sovranazionale. Tale chimera fu strumentalmente rilanciata dagli avversari delle potenze musulmane e da alcuni degli stessi governanti islamici. Tra di essi figuravano i sultani ottomani, califfi della comunità musulmana globale. Fu Mehmet V, infatti, a proclamare il jihād della comunità islamica universale (ummat al-islāmiyya in arabo)contro la Gran Bretagna e i suoi alleati durante la Prima Guerra Mondiale, nel novembre 1914, suscitando adesioni e reazioni contrastanti, anche da parte musulmana[iv].

Dopo l’abolizione del Califfato da parte di Atatürk e del nuovo establishment della Repubblica laica di Turchia nel 1924, prese avvio una graduale fase di regressione dell’immaginata unità geopolitica musulmana. Il declino si rese ancora più evidente negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Islam cessò di rappresentare una categoria esplicativa delle dinamiche della politica mondiale agli occhi di analisti e studiosi[v], venendo soppiantato da una più pragmatica cooperazione di matrice terzomondista tra stati nazionali post-coloniali indipendenti, riunitisi intorno ai tavoli della Conferenza di Bandung[vi].

La forte discontinuità impressa dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 al dispiegarsi del progetto di superamento di una narrazione culturalista dei rapporti tra popoli sancì il fragoroso fallimento del socialismo arabo e delle radicali istanze panarabiste incarnate dall’assertiva azione politica del presidente egiziano Nasser[vii]. Il grido “Terra! Aria! Mare!” scandito dalle truppe egiziane, siriane e giordane nel 1967 fu simbolicamente rimpiazzato dal takbīr (cioè l’espressione islamica Allāhu akbar, “Dio è il più grande”) degli eserciti arabi vittoriosi – seppur solo dal punto di vista politico e propagandistico – nel conflitto dello Yom Kippur del 1973[viii]. Il cambiamento fu un inequivocabile indicatore del rinnovato corso ideologico intrapreso dalle élite politiche del mondo arabo, tese a rivitalizzare l’inossidabile idea di mondo musulmano.

Negli anni Settanta, l’Arabia Saudita si costituì quale polo inteso a fronteggiare apertamente il nasserismo, tramite l’operato del monarca Fayṣal ibn Āl Saʿūd, il quale, raccogliendo il testimone dei sultani ottomani, reinventò una solidarietà panislamica in uno scacchiere geopolitico di stati-nazione, non più di imperi. L’istituzionalizzazione di questa nuova solidarietà fu presieduta dal Re stesso e si articolò in due forme diverse. La prima riguardò l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, centro irradiatore dei modelli culturali e religiosi wahhābiti sauditi. La seconda, invece, era riferibile al blocco musulmano emerso in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per promuovere gli interessi di paesi asiatici e africani a maggioranza islamica[ix].

A contendere al regno del Golfo l’egemonia assoluta sull’ingente capitale culturale e politico insito nella costruzione di uno spazio islamico globale, fu il nuovo Iran di Khomeynī. La Repubblica islamica, sorta in seguito alla Rivoluzione del 1979, fu artefice di una ridefinizione in senso marcatamente anti-imperialista e anti-americano del discorso panislamista, in controtendenza con il sistema di alleanze e l’agenda internazionale implementata dalla monarchia saudita. Il regime rivoluzionario degli Āyatollāh diede corpo ad una inedita e radicale piattaforma politico-ideologica capace di rispondere alle istanze di rivalsa dei musulmani subalterni, ovvero della Umma degli oppressi (mustad’afîn)[x] vittima del neo-colonialismo occidentale nei teatri di guerra e occupazione militare straniera in Palestina, Libano, Kashmir e Afghanistan, rimaste inascoltate sotto l’egida saudita.

Le due alternative campagne panislamiche avviate da Arabia Saudita e Iran entrarono, così, in rotta di collisione. La prima era ormai compromessa con gli Stati Uniti e Israele, nonché intenta a canalizzare la militanza islamista dei combattenti della fede (mujāhidīn)contro l’Unione Sovietica. La seconda si trovava equidistante da entrambi i blocchi contrapposti nel quadro della tarda Guerra Fredda, impegnata, a differenza dei sauditi, sul fronte della propaganda mediatica, e critica nei confronti di una Riyad dimostratasi inadempiente nella difesa dei musulmani[xi].

È essenziale comprendere come questa accesa lotta intestina saudita-iraniana per il conseguimento di una preminenza simbolica su una comunità musulmana virtuale, spesso interpretata come monolitico scontro di natura settaria e tribale tra sunniti e sciiti, si sia in realtà configurata come soluzione squisitamente politica rispetto alle gravi difficoltà riscontrate nella conduzione degli affari interni ed esteri in entrambe le fazioni. Difatti, in età moderna e contemporanea, prima della Rivoluzione iraniana, la divergenza tra le due storiche correnti dell’Islam era molto flebile[xii], e non era mai stata addotta quale causa scatenante di opposizioni o disarmonie.

A partire dagli anni Sessanta e Settanta il campo islamico si spaccò internamente, rivelando la propria artificiale facciata. Esso si era articolato a partire dal XIX secolo in virtù di eventi storici, conflitti e logiche imperiali contingenti, non in funzione di una presunta tradizione immutabile comune o di una storia condivisa. Paradossalmente, il mondo islamico era stato pensato congiuntamente dai panislamisti e dai loro avversari, europei e non, quale comunità immaginata volta a corroborare le proprie discordanti agende politiche e geopolitiche. La persistente ed evocativa categoria di mondo musulmano che, quotidianamente, informa pubblicazioni, studi, discorsi di leader politici, e dichiarazioni pubbliche, si dimostra ancor più fallace ed inconsistente in quanto è proprio tra le sue fila che si sono sovente sviluppati nuovi motivi di divisione geopolitica e di conflitto, al di là del richiamo ad una identità organica e ridotta ai termini essenziali [xiii]. L’analisi dell’idea di comunità globale islamica cristallizza lo stato d’essere di un immaginario che vuole costantemente farsi universale ma è costretto a misurarsi con il carattere frammentario, localistico, acefalo dell’Islam[xiv]. Per di più, in geopolitica, questa idea è destinata a rimanere un’illusione, un repertorio di simboli e discorsi al quale attingere saltuariamente, un contenitore di aspirazioni più o meno mobilitanti nel breve periodo. L’ideale di un Islam globale non potrà mai rappresentare, dunque, un valido e duraturo attore dell’azione strategica[xv].

Note:

Immagine: pixabay.com

[i] “Obama’s Speech in Cairo”, in “New York Times”, 4 giugno 2009: https://www.nytimes.com/2009/06/04/us/politics/04obama.text.html, consultato in data 10 febbraio 2021.

[ii] Lacoste Y., “Represéntations géopolitiques” in “Dictionnaire de Géopolitique”, Flammarion, Parigi, 1995, pp. 1278-80.

[iii] Aydin C., “L’idea di mondo musulmano. Una storia intellettuale globale”, Einaudi, Torino, 2018, p. 28.

[iv] Zürcher E. J., “Jihad and Islam in World War I: Studies on the Ottoman Jihad on the Centenary of Snouck Hurgronje’s Holy War made in Germany”, Leiden University Press, Leida, 2016, p. 23.

[v] Berger M., “Religion and Islam in Contemporary International Relations”, Netherlands Institute of International Relations ‘Clingendael’, aprile 2010.

[vi] Aydin C., op. cit., p. 167.

[vii] Campanini M., “Storia del Medio Oriente contemporaneo”, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 151-52.

[viii] Kepel G., “Uscire dal caos. Le crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, p. 29.

[ix] Aydin C., op. cit., pp. 197-98.

[x] Kepel G., op. cit., p. 38.

[xi] Kepel G., op. cit., pp. 48-52.

[xii] Aydin C., op. cit., pp. 202-03.

[xiii] Ivi, p. 207.

[xiv] Balduzzi A., “Il mondo arabo è meno islamico, ma Cesare non riesce a uccidere Dio” in Limes online, 7 aprile 2020.

[xv] Caracciolo L., “Aspettando Averroè” in “Musulmani ed europei”, Limes Rivista Italiana di Geopolitica, 1/2018, p. 7.

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