L’Europa ha un’anima nera? L’avanzata dell’estrema destra oggi

Abstract: In un recente intervista all’Espresso, il politologo Marco Tarchi afferma che “la società è attraversata da un profondo senso di disagio. I partiti tradizionali e i nuovi populismi non danno risposte convincenti – e per questo motivo – le persone decidono di affidarsi a portatori di ipotesi più radicali”. Così per l’Europa avanti a destra, anzi a estrema destra.

 

Ad aggirarsi per il continente oggi non è più il fantasma del comunismo, bensì lo spettro dell’immigrato extracomunitario e delle masse di chi fugge dalla miseria di tutti i Sud del mondo cercando, nel ricco continente, pace dalla guerra e dalla povertà. Unitamente ai sentimenti euroscettici, l’opposizione all’attuale architettura europea e a istituzioni quali il Parlamento e la Commissione, il collante dei vari partiti nazionali d’estrema destra è proprio questo: il bisogno fisiologico di costruirsi un nemico contro il quale dirigere la propria ostilità. Di certo l’estrema destra ha altri obiettivi polemici e spesso, per cercare di rimediare alla sensazione di inferiorità psicologica in cui vive, proclama di non riconoscersi più nella dialettica oppositiva sinistra e destra, sebbene sul piano del dibattito teorico-politico questa resti il principale terreno di scontro. Esercitando una decisa opposizione, l’estrema destra europea aspira a un ritorno del predominio delle nazioni sugli organismi comunitari e rilancia l’idea di “un’Europa dei popoli” per arrivare infine all’estremismo di Le Pen, che vorrebbe l’immediata uscita della Francia dall’UE e il ritorno al franco come moneta corrente o quanto meno da affiancare all’euro.

Sebbene molti partiti caldeggino l’antiamericanismo, il superamento del liberismo e la guerra alla globalizzazione, in realtà, all’interno della galassia dell’estrema destra, si configurano gruppi molto variegati tra loro. Alcuni partono da posizioni dichiaratamente fasciste o addirittura naziste: tra questi, i movimenti estremisti tedeschi, il Fronte Sociale Nazionale italiano insieme a Forza Nuova, CasaPound e Lega, la Democrazia Nazionale spagnola, il Partito Nazionale Britannico, l’Alba Dorata greca e, last but not least, il Partito Ungherese Giustizia e Vita. Altri, nel tempo, hanno tramutato i richiami neofascisti in una sorta di socialismo di destra con venature antiglobaliste e antiliberiste come il Front National di Le Pen e l’FPÖ di Strache in Austria. Le Pen ha anche tentato di dar vita a una sorta di super gruppo europeo, seppure ormai defunto, chiamato EuroNat. Ognuno di questi rivendica una serie di novità e si difende dall’accusa di replicare sistematicamente i modelli del passato: gli sforzi per distinguersi sono notevoli e continui ed è per questo che non possiamo parlare di “fascismo del terzo millennio”. Senza alcun dubbio, la propaganda 2.0 ha offerto un canale di espressione a questi movimenti di nicchia, moltiplicandone il pubblico di riferimento; tuttavia, tra il raccogliere i “mi piace” e riuscire a mobilitarne fisicamente il consenso, il passo è lungo e lavorare sul territorio rimane un fattore cruciale per ottenere visibilità e nuovi consensi.

Che siano al governo o in Parlamento, le destre hanno rafforzato le loro posizioni in gran parte d’Europa e il Front National (FN) è uno di questi. Fondato ufficialmente a Parigi il 5 ottobre 1972, sorto dalla fusione di vari movimenti politici preesistenti appartenenti all’estrema destra francese e guidato per molti anni da Jean-Marie Le Pen, il FN è riuscito negli ultimi dieci anni a passare dall’essere un insignificante gruppo politico di estrema destra a terzo partito di Francia, destabilizzando lo storico bipartitismo francese. Intendendo il concetto di “nazione” come un’entità millenaria e naturale che si schiera a difesa delle tradizioni occidentali, il Front National ha un’infelice storia di antisemitismo e xenofobia.

Succeduta al padre dopo trentanove anni di leadership, sin da subito, Marine Le Pen ha compreso la necessità di dare un volto nuovo al partito in crisi, apportando un cambiamento d’immagine non indifferente: si libera dei vecchi reazionari neofascisti di cui il partito era per lo più composto e denuncia quegli avversari politici che la accusano di essere nostalgica del fascismo. Allo stesso modo, le notevoli trasformazioni di stile e di contenuti incarnano il tentativo di rendere il partito una scelta politica credibile per gli elettori: sebbene le idee su immigrazione, identità nazionale e sicurezza non siano mutate, Marine Le Pen ha abbandonato l’ultra liberalismo paterno per abbracciare l’idea di uno stato interventista nell’economia e protezionista nei confronti dei suoi cittadini, sempre più colpiti dalla crisi economica. Questo processo, definito di “dédiabolisation“, esigeva che Le Pen abbandonasse per sempre non soltanto l’ereditata dialettica paterna, ma suo padre stesso. Nell’estate del 2015, infatti, la figlia dell’ex soldato d’Algeria ha espulso Jean-Marie dal partito: l’anziano genitore le ha fatto causa, ma alla fine, a distanza di qualche mese, si è arreso.

Dell’incapacità di fare presa diretta dei reali nervosismi dei cittadini da parte sia del Partito Socialista francese che l’Unione per un Movimento Popolare ha saputo approfittarne Marine Le Pen, che si presenta al di fuori del tradizionale asse politico destra-sinistra e che punta alla realizzazione di un progetto neo-comunitarista di difesa e affermazione nazionale. In questa prospettiva, va inquadrata la definizione che proprio la giovane leader dà del movimento: “Ni droite, ni gauche, Français! Cette fracture est artificielle. Le vrai clivage aujourd’hui, il est entre les patriotes et les mondialistes[1].

Come Matteo Salvini in Italia, Marine Le Pen si definisce orgogliosamente “nazional-populista”, cavalcando i sentimenti comuni e auspicando controlli alle frontiere e il ritorno alla sovranità nazionale perduta, considerate le uniche possibili soluzioni alla crisi dei nostri giorni. Sfruttando il proprio carisma e le abilità oratorie, la nuova leader cerca di instaurare un legame diretto e duraturo con il popolo francese proponendosi come l’unica figura politica in grado di comprenderne le esigenze. E infatti, il partito frontista attualmente rappresenta, meglio di altri partiti, la classe lavoratrice che porta su di sé il peso della crisi e, in quanto espressione di quel ceto medio minacciato dagli effetti negativi della globalizzazione, sembra essere sua principale sostenitrice.

Nondimeno, pur avendo messo da parte gli slogan antisemiti, dismesso le rievocazioni nostalgiche della Francia di Vichy, abbandonato i ricordi della guerra di Algeria, proposto di cambiare il nome del FN in “Rassemblemen National” e “rottamato” perfino il padre, Marine Le Pen persevera nell’alimentare il falò populista: continua a inveire contro globalizzazione e multiculturalismo, ad opporsi a islamismo e immigrazione, ai mercati globali, alla NATO e soprattutto all’Unione Europea, identificata come principale responsabile di tutti i mali della Francia.

Non conta dunque che molti membri del FN siedano al Parlamento europeo né che la stessa Le Pen sia stata accusata di appropriazione indebita di sussidi degli europarlamentari: per molti francesi lo status quo, l’andamento dell’economia e la paura del terrorismo contano di gran lunga di più e il numero dei suoi elettori si è accresciuto notevolmente dopo l’attentato agli Champs Elysées del 20 aprile 2017. Alle lezioni dello scorso aprile, Le Pen ha raccolto uno storico 21,53% e, se è pur vero che il rebranding, unitamente al protezionismo identitario e all’istigazione estremista non sono bastati a farle conquistare la poltrona di presidente, una cosa è certa: Marine Le Pen è già riuscita a trasformare il volto e la mentalità della Francia.

 

[1] “Né destra né sinistra, Francesi! Questa frattura è falsa. La vera scissione oggi, è tra patrioti e globalisti”.

 

Sitografia:

 

Angelica Marcantone

 

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