PAOLA GIANNETTI | Uno dei principali obiettivi della politica estera di Erdoğan è la Siria. In particolare, l’azione muscolare condotta da Ankara contro l’autonomia territoriale del Rojava è volta a indebolire le milizie curde dell’YPG e YPJ e a rafforzare la sicurezza del suo territorio attraverso una divisione della composizione etnica, ricollocando all’interno della zona cuscinetto una parte dei rifugiati siriani oggi presenti in Turchia[1]. La politica della porta aperta adottata dalla Turchia nel 2012 si è di fatto rivelata un fallimento. Lo stato turco non era in grado di gestire i flussi migratori generati dalla guerra civile siriana scoppiata nel 2011 e, sul piano interno, il malcontento dei cittadini è stato espresso alle amministrative del marzo 2019 quando città come Ankara e Istanbul sono passate all’opposizione dopo decenni di governo dell’Akp, il partito di Erdoğan[2].
Tuttavia, se da un lato abbiamo la Turchia che cerca di ricompattare il consenso all’interno del paese utilizzando le fazioni dell’ISIS come proxy a danno dei curdi, dall’altro abbiamo la Russia e l’Iran che intendono contrastare gli elementi jihadisti dando sostegno a Damasco. In questo senso, la guerra civile si è internazionalizzata proprio con l’emergere dell’autoproclamato Stato islamico. La lotta all’ISIS ha contribuito alla formazione di alleanze piuttosto insolite, non soltanto sul piano interno della Siria (i curdi e Assad combattevano fianco a fianco questa volta) ma anche su quello internazionale. Inoltre, il ruolo giocato dagli Stati Uniti in supporto allo YPG e YPJ spiega come, in nome di una minaccia comune (l’offensiva jihadista) si possano adottare politiche anche apertamente in contrasto con gli interessi di qualche alleato: in questo senso basti pensare al fatto che Ankara è membro della NATO e, dunque, alleato ufficiale degli Stati Uniti. Ad ogni modo, l’interventismo americano è maggiormente legato alla volontà di garantire la sicurezza dell’Occidente piuttosto che volto a sostenere il progetto democratico del Rojava.
All’indomani della sconfitta di Daesh nel 2017, questo equilibrio precario è crollato. L’avvento di Trump alla Casa Bianca ha segnato l’inaugurazione di una politica tendente all’isolazionismo, in conseguenza della quale i curdi furono lasciati soli sia nella battaglia contro Damasco e Mosca – pronti a preservare l’integrità territoriale della Siria – sia contro Ankara, motivata ad impedire la loro autonomia politica per ragioni di sicurezza[3].
Visti i diversi attori e i rispettivi interessi in gioco era necessario raggiungere un accordo, ed è stato proprio Putin ad aprire il negoziato che, nel 2017, ha portato alla firma degli Accordi di Astana fra le forze governative di Assad e i ribelli. Nel contesto di questi accordi sono state approvate zone di de-escalation, ossia aree in cui le operazioni di combattimento sarebbero cessate e, tramite gli stessi, Russia, Turchia e Iran sono riuscite a ritagliarsi il ruolo di potenze garanti dell’accordo inserendosi così nel processo di pacificazione e ricostruzione della Siria[4].
Questo, però, non ha impedito ad Ankara di intervenire militarmente. Nell’ottobre 2019 Erdoğan ha lanciato l’operazione “Sorgente di pace” in seguito all’annuncio di Trump di ritirare le truppe statunitensi dal confine turco-siriano. Tale intervento era mirato non soltanto alla costruzione di una zona cuscinetto nel Rojava, ma puntava soprattutto a perseguire importanti risultati strategici: l’affermazione della propria influenza dal Medio Oriente al Nord Africa, entrando così in aperta competizione con Arabia Saudita, Iran e i rispettivi alleati.[5]
I combattimenti sono proseguiti fino al 23 ottobre, giorno in cui Putin ed Erdoğan hanno stretto a Sochi l’intesa per il cessate il fuoco permanente. In cambio, i combattenti curdi dello YPG e YPJ hanno abbandonato i territori al confine turco per un raggio di 30 km[6].
A più di un anno dall’offensiva nel nord-est della Siria, tutte quelle zone sono occupate dall’esercito regolare turco e dalle milizie jihadiste alleate. Tuttavia, nessuno degli attori in campo sembra seriamente intenzionato a lanciare un’operazione su larga scala. La Turchia con l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, aspetta di capire quale sarà la posizione di Washington nei suoi confronti e, allo stesso modo, anche la Russia si sta muovendo con cautela. Ancora una volta a pagare il conto sono i curdi: bombardamenti, rapimenti, torture, stupri di gruppo e il ritorno della shari’a rischiano di mettere fine in modo definitivo all’esperienza rivoluzionaria del Confederalismo Democratico del Rojava[7].
[1] Talbot, V. “Turchia: la geopolitica di Erdoğan”. ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 11 Febbraio 2020. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/turchia-la-geopolitica-di-erdogan-25000.
[2] Talbot, V. “Turchia e migranti: le ragioni di Erdoğan”. ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 16 marzo 2020. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/turchia-e-migranti-le-ragioni-di-erdogan-25352.
[3] Wind, Ella. “Syria, the United States, and the Left.” New Politics, Vol. XVII, No. 2, Whole
Number 66, (2019).
[4] Intermite, M. R. “La sfida a due nella contesa di Idlib: ma tra chi?”. Geopolitica.info, 2 marzo 2020. https://www.geopolitica.info/tag/accordo-di-sochi/.
[5] Talbot, V. op. cit.
[6] Megale, D. “Il Rojava continua a resistere, un anno dopo”. The submarine, 9 Ottobre 2020.
https://thesubmarine.it/2020/10/09/il-rojava-continua-a-resistere-un-anno-dopo/
[7] D’Aprile, F. “Attacco ad Ain Issa: i curdi presi tra Russia e Turchia”. Inside the news Over the world. 30 Dicembre 2020. https://it.insideover.com/guerra/attacco-ad-ain-issa-i-curdi-presi-tra-russia-e-turchia.html.
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